Parlano i numeri. Le case popolari? Sono 805mila gli alloggi, ma altri 100mila potrebbero essere rimessi in uso con un piano di investimenti. Solo 9mila invece gli alloggi di edilizia sociale, il cosiddetto “social housing” di Cassa Depositi e Prestiti e le fondazioni bancarie per un canone d’affitto medio inferiore ai prezzi di mercato. Un piano mai davvero decollato. Nato in seno a Cdp nel 2009 come sistema pubblico-privato ha dovuto fin da subito far fronte alla crisi finanziaria del 2008 generata proprio nel settore immobiliare e mutui che ha messo alle corde banche e fondazioni. Le stesse che dovevano finanziarie i fondi immobiliari per realizzare le case del ceto medio impoverito. Questa l’offerta.
650mila famiglie in attesa di una casa
La domanda invece? 650mila richieste inevase per accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica. A tanto ammonta il numero di famiglie in attesa nelle graduatorie dei Comuni. E ancora: 50mila le nuove sentenze di sfratto ogni anno, con un aumento del 57% in 10 anni (dal 2006 al 2016), di cui la quota per morosità incolpevole – cioè l’incapacità reddituale di pagare l’affitto – è passata dal 75% all’89%. Servirebbero almeno 100 mila nuove unità di edilizia sociale necessarie per rispondere al fabbisogno. A mettere nero su bianco i numeri duri e crudi dell’abitare in Italia ci ha pensato il “Forum Diseguaglianze e Diversità”, pensatoio delle politiche pubbliche in Italia che riunisce ricercatori, accademici e numerose realtà che vanno da ActionAid a Caritas Italiana passando per Cittadinanzattiva e Legambiente. L’obiettivo del documento “Una casa dignitosa, sicura e socievole per tutti. Una missione strategica attivata dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, curato fra gli altri dal professor Carlo Cellamare della Sapienza di Roma e dal Presidente di Federcasa Luca Talluri, rimettere le politiche abitative al centro dell’agenda. Almeno con l’occasione Recovery Plan che il 30 aprile approda a Bruxelles.
Edilizia pubblica e sociale cenerentola del Recovery Plan
I numeri però sono impietosi. Di fronte agli oltre 200 miliardi del Piano di Ripresa e Resilienza, le previsioni di spesa sul tema della qualità dell’abitare e dell’accesso a una casa sono bassissime: sono stati messi complessivamente 8,5 miliardi su rigenerazione urbana e housing sociale, di cui 3 miliardi già in essere e 5 come nuovi investimenti. Che però vanno a coprire una gamma molto ampia di interventi legati all’abitare. Dai cosiddetti “Piani Urbani Integrati” fino alla costruzione di padiglioni di detenzione che migliorano la vita carceraria di adulti e minori. Una forma di “abitare” molto particolare, quella in carcere. Per l’incremento di case “sociali” in senso stretto, i finanziamenti sono 500 milioni di euro – una delle voci più basse dell’intero piano. Per l’efficientamento energetico e sismico dell’edilizia abitativa pubblica e privata i numero parlano di 10,26 miliardi. Che però non sono finanziamenti diretti ma figli del superbonus al 110% (anche agli istituti che gestiscono le case popolari). Crediti d’imposta, non risorse fresche.
Per dare un’idea di quanto è sottostimato il capitolo nel Recovery del governo Draghi, secondo le più recenti stime figlie di un lavoro comune fra Federcasa e Fondazione Housing Sociale Cariplo, il principale attore dell’housing sociale in Italia e che infatti si concentra in larga parte a Milano e Lombardia, per dare una risposta alla domanda abitativa dell’edilizia pubblica e sociale di lungo periodo sarebbero necessari investimenti per un minimo di 55 ad un massimo di 80 miliardi in 15 anni. Cioè tra i 3,6 e i 5 miliardi ogni anno.
Anche perché il problema non è soltanto avere un tetto sopra alla testa a prezzi che permettano di sopravvivere. Ci sono annessi e connessi: si va dal tasso di sovraffollamento delle abitazioni, misurato a livello europeo, che in Italia è fra le 2 e le 3 volte superiore a quello dei principali paesi comunitari e che presenta un grave divario Nord-Sud. O ancora: la cosiddetta povertà energetica. Diventata talmente impellente che Caritas Ambrosiana da qualche anno ha lanciato un’analisi dettagliata delle famiglie in condizioni di povertà che non riescono a pagare le bollette. Solo nella Diocesi di Milano, il segmento intercettato parlava nel 2018 di 11 mila persone che hanno chiesto aiuti economici per le utenze e gli affitti ai centri di ascolto. Per evitare i distacchi l’organismo diocesano ha pagato ben 6mila bollette della luce di tasca propria. In generale in Italia le famiglie in situazione di “povertà energetica” rappresentano l’8,8% del totale, con una forte varianza territoriale, demografica e di genere che penalizza le donne. Più colpito il Mezzogiorno e le famiglie più numerose – di solito quelle che vivono in affitto – oltre a quelle il cui capofamiglia è relativamente più giovane (fino a 35 anni).
Un problema per tutta l’Unione Europea
Sono problemi che iniziano ad essere indagati con forza in tutta l’Unione Europea, di fronte a un deficit di ricerca e conoscenza. A gennaio il Parlamento europeo ha approvato una relazione “sull’accesso a un alloggio dignitoso e a prezzi abbordabili per tutti”, voluta dall’eurodeputata dei Verdi e del Gue Kim Van Sparrentank. Le centinaia di dati raccolti all’interno, provenienti da svariate fonti di ricerca, aprono uno squarcio sulle condizioni dell’abitare nell’Unione. Vi si legge che, secondo le stime di Eurofound, gli alloggi inadeguati costano alle economie dei Paesi comunitari 195 miliardi di euro all’anno; che, nel 2018, il 17,1% degli abitanti viveva in alloggi sovraffollati, il 28,5% dei giovani nella fascia di età 25-34 anni vive con i genitori. Con differenze importanti fra gli Stati membri, la relazione fotografa anche il fatto che, fra 2010 e 2018, una persona su dieci nel vecchio continente ha speso più del 40% del suo reddito per l’alloggio. Si tratta della voce più elevata fra quelle per la sussistenza personale. Dentro questa categoria rientrano il 38% delle famiglie a rischio povertà. Ogni notte in Europa 700mila senza dimora devono dormire nei centri di accoglienza o in strada e in diverse città sta prendendo piede a livello sperimentale il modello “Housing First”, l’idea cioè che la casa non sia un punto di arrivo del recupero di una persona, ma il punto di partenza. Dalla stabilità abitativa possono infatti dipendere variabili come la capacità/possibilità di trovare lavoro, le proprie relazioni sociali e la salute. Anche in tempi di pandemia. In Europa non ci sono studi ma negli Stati Uniti una ricerca condotta da UCLA, insieme a Johns Hopkins, Boston University e Wake Forest University School of Law ha dimostrato come la revoca delle moratorie statali sugli sfratti, o la mancata approvazione di un “blocco” in alcuni stati degli Usa, abbia causato 433.700 casi di contagi Covid e 10.700 decessi aggiuntivi tra marzo e settembre. In 27 stati le moratorie sono state ritirate ed è emerso che a dieci settimane dallo “sblocco” l’incidenza del Covid-19 era 1,6 volte superiore rispetto a quella registrata dove non era stata presa la stessa decisione. Aumentata anche la mortalità, con picchi di 5,4 a 1 rispetto agli Stati che avevano mantenuto il blocco, dopo 16 settimane.