di Simone Fana e Francesco Floris
Zero edilizia pubblica per i ceti meno abbienti. Nessuna politica per l’affitto e, ancora una volta, incentivi alla proprietà. Sul lavoro? Se il Piano dovesse fallire a pagare saranno i giovani neoassunti a tempo determinato nella pubblica amministrazione. Ecco la fotografia del Recovery Plan italiano su due delle questioni sociali più impellenti del Paese. Banalmente: casa e lavoro.
L’eterna piaga della “fuga dei cervelli”? Difficile che venga risolta da un piano che prevede contratti a tempo determinato per migliaia di giovani iper-qualificati. Selezionati come? Attraverso un collegamento diretto con i centri di ricerca e le Università, si legge nel Pnrr. Ma non è tutto oro quel che luccica. I neo assunti dovranno sperare che i progetti a cui lavoreranno vadano a buon fine e che le amministrazioni abbiano risorse sufficienti per garantire la continuità occupazionale. Insomma: il merito, ma fino ad un certo punto. Se l’impianto complessivo del Piano dovesse fallire – su cosa peraltro non è chiarissimo – a pagare saranno loro. Non chi lo ha prima pensato e poi scritto.
Dietro le roboanti promesse in materia di innovazione e digitalizzazione, la sensazione è quella di trovarsi davanti un insieme di misure prive di un disegno complessivo. Non c’è traccia di una logica di programmazione degli interventi nel Recovery Plan che il governo Draghi ha partorito la scorsa settimana e che richiederebbe l’individuazione di obiettivi, strumenti e risorse, collegate con un’azione di monitoraggio continua. Non c’è nessuna visione di come si intenda favorire la sedimentazione delle conoscenze e delle competenze richieste in un cambiamento dei meccanismi di funzionamento della pubblica amministrazione. Non è dato sapere quali figure professionali saranno necessarie non solo nei prossimi tre anni, ma nei decenni a venire per un cambiamento che non riguarda esclusivamente la dinamica di comparto, ma che ha un impatto decisivo sugli squilibri territoriali, economici e sociali. Insomma manca un indirizzo generale, che è elemento necessario di un piano di riforma. La sensazione? È di trovarsi con una misura di restyling ammantata da parolone buone per gonfiare qualche titolo di giornale.
Recovery Plan, dal lavoro alla riforma della giustizia
Idem per la riforma della giustizia. Anche in questo caso si prevedono ventimila assunzioni circa, di cui la gran parte di laureati in Legge. Come? A tempo determinato. Una produzione di precariato di massa nel pubblico che stride con gli annunci del ministro Brunetta che, a proposito delle nuove assunzioni, aveva parlato di “speranza” per i giovani di trovare un impiego qualificato e duraturo. In realtà, a leggere il piano, i nuovi assunti dovranno “sperare” nella buona sorte, visto che anche nel loro caso l’esito del rapporto di lavoro dipenderà dalle risorse disponibili.
Che compiti avranno? Le nuove leve dovranno aiutare a sfoltire i tempi dei processi, velocizzando le pratiche e garantendo una maggiore efficacia e competitività del comparto. Competitività ed efficacia sono le due parole d’ordine che ritroviamo lungo le 370 pagine del Pnrr. Un’altra occasione persa per restituire alla funzione pubblica un ruolo di direzione dello sviluppo economico del paese – come ha dimostrato drammaticamente la vicenda dei vaccini – in assenza di grandi imprese in grado di trainare la traballante economia italiana. Sono inserite nella quinta missione, dedicata all’Inclusione e alla Coesione sociale. Il Piano ricalca gli schemi in voga dalla fine del secolo scorso, che attribuiscono la bassa partecipazione dei giovani al mercato del lavoro nel mismatch tra domanda e offerta, ovvero al disallineamento tra le competenze dei giovani e la domanda di lavoro delle imprese. Si tratta di un problema che deve essere risolto unicamente sul piano dell’offerta, portando i giovani ad acquisire le competenze di cui le imprese hanno bisogno.
Non può trattarsi di un abbaglio quello preso dall’esecutivo, che continua a negare quello che ormai buona parte degli osservatori sostiene sulla base di dati ufficiali Istat, ovvero la bassa specializzazione del tessuto produttivo del Paese, ma è una evidente conseguenza di chi continua a scaricare le responsabilità della scarsa competitività dell’economia italiana nelle basse conoscenze dei lavoratori e delle lavoratrici. Ed è su questa strada che a fianco a misure ragionevoli di rilancio dell’apprendistato e dei sistemi di formazione tecnica superiore (ITS) si innesta il servizio civile nazionale come strumento di inserimento nel mercato del lavoro. Un servizio civile che assume carattere volontario, in cui i giovani tra i 18 e i 28 anni saranno impiegati su varie ed eventuali: dalla protezione civile al turismo sostenibile, dalla difesa e promozione dei diritti umani alla cura del paesaggio. Esperienze formative, volontarie, gratuite e che allo stesso tempo devono servire all’inserimento del mercato del lavoro. Il sospetto è che ancora una volta dietro l’apparenza di un momento di crescita formativa e umana, dietro l’ennesima promessa, si stia nascondendo la trappola del lavoro gratuito e della precarietà permanente.
Recovery Plan, le briciole vanno al tema “casa”
Per non parlare del tema “casa”. Cinquantamila sentenze di sfratto ogni anno. 650Mila famiglie nelle graduatore dei Comuni che attendono un alloggio pubblico. Il caro-affitti nelle città attrattive e nei borghi turistici che costringe a spendere per l’alloggio il 50-60% del proprio reddito per i lavoratori dei più svariati settori. Nel Recovery? Ci sono finite le briciole: 2,8 miliardi dedicati all’housing sociale – edilizia privata per il ceto medio impoverito. Espressione di cui si sente parlare dalla metà degli anni Duemila con celebrazione e che, a oggi, ha portato alla realizzazione di 9mila appartamenti in tutta Italia, peraltro quasi interamente finanziati da Cassa Depositi e Prestiti e non dagli investitori privati che, secondo le intenzioni, avrebbero dovuto sottoscrivere i Fondi Locali per l’Abitare. Per dare una proporzione: il piano Ina-Casa del dopo Guerra portò alla realizzare di 200mila allogi in 13 anni.
Sono case per i ceti più deboli quelle in housing sociale? Dipende. In Lombardia, dove si concentrano il 90% di questi nuovi appartamenti, il tetto massimo di reddito per accedervi è fissato a 96mila euro di Isee e sono esclusi tutti coloro che hanno subito sfratti in passato. Non esattamente persone e famiglie che non sarebbero “solvibili” sul mercato immobiliare privato.
Pur non avendo inserito nemmeno una casa popolare nel piano italiano, Mario Draghi le ha citate più volte nei suoi discorsi alle Camere, in una sorta di dissonanza cognitiva fra quanto dichiarato e quanto scritto. In pochi hanno fatto notare la contraddizione. A oggi i politici di maggioranza e opposizione – ma anche copri sociali intermedi – si contano sulle dita di una mano: Marco Osnato di Fratelli d’Italia; Stefano Fassina di Leu che ha detto a Montecitorio al premier di aver “apprezzato riferimento alle case popolari, all’edilizia residenziale pubblica” dicendosi però, stupito che siano “spariti anche i 500 milioni che erano previsti nella Missione 5 su questo punto. Attenzione, l’housing sociale non è edilizia residenziale pubblica a canone sociale, è un’altra cosa” e che “è evidente che il Piano per l’edilizia residenziale pubblica non lo si fa in due settimane, ma il punto è che bisogna programmare, altrimenti, Presidente, ci sono 650 mila famiglie in lista d’attesa in Italia per le case popolari; 650 mila famiglie, il 90 per cento degli sfratti è per morosità incolpevole”. Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana ha attaccato la misura per rendere più veloci i pignoramenti in un momento in cui un milione di persone hanno perso il posto di lavoro mentre è ancora in vigore il blocco dei licenziamenti. Nel mentre l’Unione Inquilini ha segnalato come anche nell’anno della pandemia le risorse stanziate per contributi affitto e morosità incolpevole non siano state utilizzate. Oltre 270 milioni di euro. A maggio 2021, invece, il Ministero delle infrastrutture e la mobilità sostenibile, non ripartito fra le Regioni le risorse dei fondi contributi affitto e morosità incolpevole stanziate dall’ultima legge di bilancio approvata a dicembre 2020. Ballano un totale di 530 milioni di euro. Che qualche sfratto post “sblocco” (sia degli sfratti che dei licenziamenti) potrebbero evitarlo.
Che cosa viene fatto invece? Il Movimento Cinque Stelle fa le barricate per il Superbonus al 110%. Che pur partendo dal nobile intento di efficientare a livello energetico il patrimonio edilizio italiano ha numerosi problemi di equità. Si paga con la fiscalità generale sotto forma di credito d’imposta anche la ristrutturazione di seconde case. Significa che chi una casa non ce l’ha contribuisce a migliorare quelle di chi ne ha anche due. Le misure sui mutui per gli under 35? Sono strumenti di stimolo al settore edilizio e bancario, non certo sociale. I mutui dei più giovani oggi sono “generazionali” e basta entrare in banca una volta per rendersene conto: ipoteche e garanzie sulle case di genitori e famiglie al 150% del valore dell’immobile acquistato, e mutui cointestati a due, a volte tre, firme. Anche se funzionasse rimarrebbe una misura che stimola la proprietà della prima casa, dimenticandosi invece di fare politiche per l’affitto come in Germania, dove il 50% delle persone non investe nel “mattone”. La conseguenza? Si vuole un Paese di giovani lavoratori che siano mobili sul territorio e flessibili sul lavoro. Però devono comprare una prima casa, con risparmi e garanzie delle famiglie. Cosa c’è che non torna?