“Resistere, resistere, resistere”. Il 12 gennaio saranno esattamente vent’anni che l’allora Procuratore generale di Milano, Francesco Borrelli, pronunciava per tre volte la parola “resistere” durante l’apertura dell’anno giudiziario milanese. Rileggendo le cronache di quei giorni, un dubbio si legittima: quella parola, oggi, sarebbe ancora usata o ci ritroveremmo con un invito a “resiliere, resiliere, resiliere?”. E già, perché adesso la parola con la quale quotidianamente siamo chiamati a confrontarci è “resilienza”. Sdoganata come parola dell’anno nel 2020, grazie al suo inserimento nel Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza (appunto), oggi la ritroviamo usata in qualsiasi contesto, tanto che perfino una pizzeria di Salerno l’ha scelta come nome per il suo locale (non sappiamo se riferita al personale che ci lavora o ai clienti che la frequentano, che magari si sottopongono allo stress test di un’attesa prolungata per una quattro formaggi, ma lo fanno con ottimismo: prima o poi te la servono). Ma la domanda è legittima se già nelle ultime settimane, a cena, più di un ingegnere ha posto ai commensali il seguente quesito: “Perché utilizzare una qualità dei materiali per parlare di esseri umani?”.
Ma quando siamo diventati tutti resilienti?
Già. Quand’è che siamo diventati tutti resilienti? E perché un termine che apparteneva soltanto al lessico dei tecnici – quelli veri – ha occupato militarmente il nostro vocabolario? Ormai “resilienza” e “resiliente” sono diventati come il nero nell’abbigliamento: li puoi mettere in ogni discorso e difficilmente qualcuno ti criticherà l’abbinamento. Perché, non raccontiamoci frottole, se qualcuno ci chiede a bruciapelo “ma che cos’è ‘sta resilienza?”, non sempre siamo pronti a spiegarla. Non per cattiva volontà, ma proprio perché potremo averne letto cento volte sulla Treccani la definizione ufficiale, ma proprio non ci entra nella zucca. Ancora peggio quando fornisci uno straccio di spiegazione plausibile e l’interlocutore rilancia: “ma allora non possono usare la parola resistenza, così la capiscono tutti?”.
Ma com’è successo che un termine nato per indicare “nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto” (Treccani) e “Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale” (ancora Treccani) abbia compiuto una sorta di spillover dal linguaggio settoriale degli ingegneri prima alla psicologia e poi alla politica e all’economia?
Come la parola resilienza ha fatto irruzione nelle nostre vite
Simona Cresti, della redazione Consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca, ha fatto una ricostruzione dell’irruzione delle resilienza (intesa come parola) nelle nostre vite, dopo averne ripercorso l’excursus storico.
Scopriamo così che il suo utilizzo data molto prima del Pnrr: «Il primo accenno giornalistico alla resilienza compare nel 1986 in un articolo dedicato a Sam Shepard. Del commediografo statunitense si descrivono i personaggi, sorprendentemente capaci di sostenere le sollecitazioni violente cui sono sottoposti: “Magari si piegano – un po’ – alle necessità della vita. Ma non si spezzano”; in una parola, presa questa volta in prestito dall’inglese, sono “resilient” (“La Repubblica”, 19 febbraio 1986).
Dei corrispondenti italiani si riscontra un uso più disinvolto a partire dagli anni Novanta: risultano resilienti il mercato giapponese (“La Repubblica”, 24 agosto 1990), le scarpe da corsa (“La Repubblica”, 23 novembre 2000), lo spirito di chi affronta le conseguenze del passaggio dell’uragano Katrina (“La Repubblica”, 27 settembre 2005). È in questo ultimo senso che resilienza e resiliente vivono la loro recente fortuna tra i parlanti. Oltre alle attestazioni giornalistiche (225 sulla “Repubblica” dal 1984 a oggi; 72 sul “Corriere della Sera” dal 1992 a oggi)… Il termine sembra esercitare un fascino particolare in relazione al momento storico e sociale attuale; Federico Rampini sulla “Repubblica” del 23 gennaio 2013 commenta l’uso di resilience del presidente Obama auspicando per l’Italia l’uscita dalla recessione economica sotto l’esempio dell’America resiliente; Stefano Bartezzaghi la definisce “parola-chiave di un’epoca”, sottraendola al rapido declino cui sarebbe destinata in quanto semplice “parola alla moda”.
La resilienza come risposta alla crisi
Resilienza assume un valore simbolico forte in un periodo in cui l’accesso interpretativo più frequente alla condizione economica, politica, ecologica mondiale è fornito da un’altra parola, crisi: lo spirito di resilienza rappresenta la capacità di sopravvivere al trauma senza soccombervi e anzi di reagire a esso con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale».
Dal 2011 resilienza è una “buzzword”
In un saggio pubblicato su Rivista Studio nel 2018 (“Aiuto! La resilienza ci ha circondato”), Andrea Beltrama, del Dipartimento di Linguistica dell’Università di Costanza, in Germania, scrive: «L’ascesa fulminea della parola può essere rappresentata da un processo che si snoda in tre fasi principali: una fase iniziale in cui è stata utilizzata come termine tecnico per descrivere le capacità di metalli o di altri materiali di non rompersi in caso di urto; una fase intermedia, in cui il significato del termine è stato esteso alla più generale capacità di un sistema di fare fronte ad eventi che ne minacciano l’equilibrio ed è stato così adottato da diversi ambiti disciplinari, come le scienze psicologiche, sociali, economiche, ambientali e informatiche; infine, una terza fase, che l’Accademia della Crusca localizza nel tempo dal 2011 ad oggi, in cui, a causa di una diffusione incontrollata, il termine è diventato una buzzword, ossia una parola di moda, con un forte impatto evocativo, che spesso è sconnessa dal significato letterale e rimanda ad un’ideale estetico e morale piuttosto che a un concetto meccanico quale inizialmente era. Da quel momento in poi la troviamo associata agli oggetti ed agli eventi più disparati: dai programmi televisivi alla musica rock, dei blog di moda alle fase dei biscotti della fortuna, dai capi di abbigliamento ai vini e gli aperitivi».
«Come spesso accade», dice ancora Beltrama, «il conseguimento dello status di parola alla moda è stato anche accompagnato dalla repulsione e dal rifiuto di utilizzare il termine – e tutto ciò che implica – da parte di una categoria sempre maggiore di critici, studiosi e persone comuni, nel tentativo di porre fine all’eccessivo dilagare o, meglio, alla “pervasiva stregoneria verbale” che si era creata intorno alla parola».
Il Comune di Bugliano vieta l’uso della parola resilienza
Tanto pervasiva che l’inesistente Comune di Bugliano emanava il 10 maggio 2020 un’ordinanza che vietava vieta «l’uso della parola “resilienza” sia in forma scritta che orale su tutto il territorio comunale». Prevedendo per i trasgressori «un’ammenda di € 25,00». Uno scherzo, certo. Ma quanti vorrebbero che una simile sanzione fosse introdotta veramente? Nel frattempo, resistiamo. Anzi, resiliamo.