Perché leggere questo articolo? Da dicembre 2021, il Garante per la Privacy ha il compito di monitorare i contenuti che porterebbero essere oggetto di “revenge porn”. Uno scoop rivela come l’Autorità per il trattamento dei dati personali non sia in grado di fornire adeguata assistenza. Centrano l’informatica, la carenza di personale e… i mitomani.
Da dicembre 2021 il Garante della Privacy ha assunto una competenza particolare. L’autorità è stata – tra le varie cose – incaricata di provare a bloccare la diffusione di materiali che potrebbero rientrare nella categoria “revenge porn“. Quelle foto e video che vengono messi in rete con l’intento di ledere l’immagine per esempio di un ex partner. Tre anni fa il governo Draghi affidò all’autorità Garante della Privacy la protezione anche di questo crimine attenente alla sfera più intima delle persone. All’intenzione encomiabile, però, non sembra essere corrisposta un’attuazione vagamente efficace.
Il Garante della Privacy e la (non) tutela dal revenge porn
Come rivela Luca Roberto su Il Foglio, il Garante della privacy s’è trasformato in una buca di video porno. Ma procediamo con ordine. Il Codice di Privacy, all’articolo 144-bis, stabilisce che chiunque abbia il sospetto di diffusione di un certo materiale può girarlo alle autorità attraverso un apposito form. Spetta dunque agli operatori del Garante per la Privacy comunicare in via preventiva alle varie piattaforme – social, applicazioni o siti che diffondono materiale pornografico – il blocco alla pubblicazione di determinate foto e video.
Un’operazione preventiva il Garante aveva già predisposto con un player importante come Meta (proprietario di Facebook e Instagram). Solo che il lavoro del Garante in pratica finisce qui, con la comunicazione alle piattaforme. Questo spiega come di migliaia di segnalazioni raccolte nel corso di questi più di due anni, non ci sia stato alcun riscontro effettivo dai piattaforme. Su tutte, Tiktok e Telegram che dovrebbero incaricare del blocco dei contenuti. Ci sono poi le realtà paradossali di siti porno che non hanno nemmeno dei referenti italiani.
Cos’altro non sta funzionando
A queste problemi, se ne aggiunge un altro non di poco contro. A rendere vano il lavoro del Garante della Privacy c’è un serio problema tecnico. L’Autorità, infatti, fornisce alle piattaforme il codice hash. Una sequenza di un file informatico, composta da lettere e numeri (solitamente 64) che rappresenta l’impronta del documento. Basta però che il file venga inviato su qualsiasi piattaforma di messaggistica perché si trasformi. In sostanza, una volta ricevuto, le piattaforme non sono in grado di riconoscerlo. In ogni caso, a quest’attività di sorveglianza è stata demandata un’intera unità del Garante, composta da 4 funzionari e un dirigente.
I cinque funzionari del Garante della Privacy hanno il compito di rispondere alle segnalazioni entro 48 ore. L’ufficio resta operativo anche nel week-end. Il lavoro dell’autorità è precedente al reato. Nel momento in cui viene riconosciuta una fattispecie passibile di reato perseguibile penalmente – come il revenge porn – le competenze vengono trasferite alla Polizia postale, che a la competenza per riferire all’autorità giudiziaria. Una fonte interna al Garante ha rivelato a Il Foglio come “quest’ufficio sia stato vittima di veri e propri mitomani ed esibizionisti che, venuti a conoscenza del fatto che vi lavoravano tre donne, inviano loro contenuti espliciti per il semplice gusto di farsi vedere”.
Lo sforzo del Garante per tutelare la Privacy
Malgrado i problemi, l’autorità garante continua nello sforzo per un lavoro a contrasto di una pratica triviale che negli ha mietuto vittime innocenti. Il Garante per la Privacy ha stretto un accordo con i Corecom (Comitato regionale per le comunicazioni) regionali. Ha quindi avviato un’intensa campagna di comunicazione con dei video dal titolo “Finalmente un po’ di privacy”. E’ chiaro che l’intento è meritorio. Ma l’inefficacia dimostrata rischia di far percepire il lavoro come una visione estemporanea e fuori contesto di materiale pornografico da parte di chi ci lavora. Per tutelare davvero la privacy delle vittime, al Garante serve incanalare meglio lo sforzo.