Il caso Ilaria Salis è il nuovo caso marò? Mutatis mutandis, fermo restando l’enorme divergenza tra le cause dell’arresto indiano dei due militari italiani avvenuto nel 2012 e quello della maestra lombarda arrestata in Ungheria durante degli scontri di piazza oltre un anno fa, un parallelismo tra le due vicende si può tracciare. Quella, cioè, dell’irrigidimento delle parti in causa di fronte all’esplosione del clamore mediatico della vicenda. La politica è anche immagine e comunicazione. E sul fronte italo-ungherese anche i governi di Giorgia Meloni e Viktor Orban, amici da ben prima che la marcia al potere della premier di Roma giungesse al compimento, hanno avuto momenti di frizione.
Il caso Salis tra politica e giustizia
Per Marco Carnelos, ex diplomatico italiano di lungo corso e titolare di molte legazioni sensibili, come quella di Baghdad, “è naturale che ciò succeda”. Parlando con True-News il diplomatico premette di “non conoscere nei suoi profondi retroscena le questioni legali e di sperare che la vicenda si risolva con i canali giudiziari ottimali” ma aggiunge che “è ovvio che quando i fari sono accesi su contesti del genere le parti governative in causa vadano oltre le partite giudiziarie e tengano la posizione”. E risulta difficile distinguere tra scelte diplomatiche e scelte dei tribunali.
Non è un caso, a tal proposito, che a Milano la Corte d’Appello abbia rimandato la decisione sull’estradizione in Ungheria di Gabriele Marchesi, il giovane milanese di 23 anni coinvolto nell’aggressione di presunti neonazisti a Budapest assieme alla Salis. Marchesi rimane agli arresti domiciliari in attesa che il ministero della giustizia ungherese fornisca informazioni sulla possibilità di applicare misure alternative alla detenzione in carcere, come gli arresti domiciliari in Italia, come richiesto per Ilaria Salis.
Marchesi-Salis, casi incrociati
La Corte d’Appello di Milano ha rinviato l’udienza al 28 marzo. Il sostituto procuratore generale di Milano, Giulio Benedetti, ha concordato con la richiesta di negare il trasferimento di Marchesi nelle carceri ungheresi e di considerare la sua scarcerazione, citando l’insufficienza di informazioni riguardo al trattamento sanitario nelle prigioni ungheresi come un ostacolo significativo all’estradizione del giovane.
Difficile tenere svincolati caso mediatico, questione giudiziaria e querelle politica. La situazione di Marchesi ha suscitato un notevole interesse, soprattutto alla luce del caso diplomatico legato alle condizioni carcerarie di Salis, che ha portato alla luce presunte violazioni dei diritti umani. La decisione della Corte potrebbe aprire una strada anche per Salis, la cui situazione è stata oggetto di accese polemiche dopo la diffusione delle immagini che la ritraevano incatenata in carcere.
“Ordine di scuderia politico e mediatico per colpire Orban”
Per Carnelos, in ogni caso, “il dato è chiaro. La mediaticità di questo caso è dettata in primo luogo dal bersaglio politico che permette di colpire. E per la precisione si colpisce l’Ungheria, Paese scomodo per molti. Scomodo per le posizioni eterodosse in campo europeo di Viktor Orban che, se da un lato è spesso maestro nel tirarsi la zappa sui piedi, dall’altro è indubbiamente un leader con posizioni in discontinuità su questioni come la guerra in Ucraina che nella dialettica comunitaria devono essere ascoltate nel quadro del dibattito tra gli Stati. Ma scomodo anche perché colpire Orban significa, in certi ambienti politici e mediatici, puntare a colpire Giorgia Meloni“.
Spesso, ricorda Carnelos, “su questi casi esistono due pesi e due misure. Ricordiamo ad esempio che quando divenne di domino pubblico l’immagine di Christian Gabriel Natale Hjort, uno dei due americani arrestati nel 2019 per l’omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega a Roma, bendato e ammanettato in caserma, il premier Giuseppe Conte arrivò a giustificarsi” con gli Stati Uniti.
Carnelos non nega che possa emergere una questione chiara: “C’è un ordine di scuderia politico e mediatico per colpire Orban e tramite lui il suo legame con Meloni. Questo ovviamente non fa venire meno la questione di fondo, e cioè che è importante che sul caso si faccia chiarezza. Ma il doppio standard è evidente“, sottolinea l’ex diplomatico, “pensando ad esempio al fatto che anche nel sistema americano spesso i detenuti vanno in tribunale ammanettati e incatenati” e nessuno batte ciglio. In quest’ottica “si genera un clamore mediatico dannoso per tutti”, nota Carnelos, “a partire dagli stessi interessati”. I cui casi diventano politici prima ancora che giudiziari. Con buona pace dello Stato di diritto.