Perché leggere questo articolo: C’è il precedente Toninelli-Siri sulla strada di Sangiuliano e Sgarbi. Politicamente, la rottura tra ministro e sottosegretario può portare alla revoca delle deleghe. Cosa che per ora alla Cultura non è avvenuta
Il caso Sangiuliano-Sgarbi tiene banco e apre diverse primarie, importanti questione politiche. Mentre il titolare del Ministero della Cultura litiga a distanza con il suo sottosegretario per il caso delle consulenze denunciato da Il Fatto Quotidiano su cui Sgarbi si è difeso in un’intervista a MowMag, dichiarandosi completamente estraneo a ogni comportamento illecito, imperversa il dibattito politico. Quale futuro per Sgarbi nel governo?
Il caso Sgarbi-Sangiuliano
Sul sottosegretario si sono contemporaneamente abbattute le tegole dell’inchiesta per evasione fiscale a Roma e la questione tutta politica della congruità dei 300mila euro ricevuti per mostre, eventi e partecipazioni a convegni dall’assunzione della carica nel governo Meloni a oggi.
L’ex direttore del Tg2 e storico “megafono” del sovranismo televisivo ha di fatto disconosciuto il suo diretto numero due. Parlando a Il Fatto Quotidiano ha dichiarato di dover spesso rimediare ai “danni di Sgarbi” in termini comunicativi. Sgarbi ha dichiarato di ritenere falsa l’intervista e di aver ricevuto una lettera da Sangiuliano, smentito direttamente dal ministro. Che ha tirato la palla in avanti assegnando il dossier nientemeno che al giudizio finale e insindacabile del presidente del Consiglio.
Sgarbi è stato contattato da True-News.it e interrogato sul fatto se ritenga o meno quello del ministro un palese scaricabarile, ma non ha risposto a riguardo. Al contempo, Sangiuliano ha dichiarato che i rapporti politici con Sgarbi sono ai minimi: “Lo vedo una volta ogni tre mesi anche perché, dico la verità, lo tengo a distanza della mia persona, voglio averci a che fare il meno possibile”. Il leader di Rinascimento è uno dei tre sottosegretari assieme a Lucia Borgonzoni della Lega e Gianmarco Mazzi, ex dirigente Rai, di Fratelli d’Italia. E l’ex direttore del Tg2 ha aggiunto che Sgarbi non deve rispondere a lui ma a Meloni in quanto non scelto personalmente ma dalla titolare dell’esecutivo per l’incarico di governo.
La mezza verità di Sangiuliano
Precisiamo che su questo fatto Sangiuliano dice una mezza verità. Il presidente del Consiglio nomina sì i sottosegretari, ma lo fa sentito il Consiglio dei Ministri. E fatto salvo ciò, è anche vero che ogni sottosegretario viene investito dal ministro di riferimento di determinate deleghe. Se la nomina di Sgarbi compete a Meloni, le deleghe sono competenza di Sangiuliano. Il quale ha garantito a Sgarbi competenze in diverse questioni: musei, aree e parchi archeologici statali, ad eccezione degli istituti dotati di autonomia
speciale; arte e architettura contemporanea; sicurezza del patrimonio culturale.
Toninelli-Siri come modello per Sangiuliano-Sgarbi?
In qualsiasi momento il Ministro può revocare le deleghe in questione al suo titolare. E c’è un caso recente che mostra la prospettiva di autonomia dei ministri su questi temi. Ci riferiamo alla scelta di Danilo Toninelli di revocare le deleghe al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a Armando Siri della Lega nel 2019. Siri era sottosegretario quando fu colpito da un’inchiesta per corruzione da parte della Procura di Trapani. Toninelli disse di volerlo “tutelare” revocandogli la carica anche se il rinvio a giudizio per Siri, nel processo tuttora in corso, fu disposto solo a fine 2020. Anno in cui dal Conte I, in cui la Lega era al governo, aveva già lasciato spazio al Conte II M5S-Pd.
Toninelli in quella fase ritenne decaduto il vincolo fiduciario tra Siri e il ministero promuovendo un fatto politico, slegato dal problema giudiziario. In questo caso le parole di Sangiuliano puntano nella direzione di un’analoga sfiducia del Ministro a Sgarbi. Che se da un lato può essere fatto decadere solo da Meloni, dall’altro vede le sue deleghe concesse su fiducia di Sangiuliano. Il quale potrebbe, politicamente, scegliere di procedere a avocarle a sé. Il ministro della Cultura per ora sta decidendo di non decidere. E questo è l’unico fatto, rilevante, della più scottante disputa interna che il governo Meloni si è trovato a gestire dalla sua nascita.