Dopo la crisi agostana in Afghanistan i riflettori dei nostri media sul mondo arabo-islamico si sono spenti di colpo. Questo, però, non vuol dire che in questi mesi non sia successo nulla nell’area. Anzi. Nel Medio Oriente arabo, in Iran, nel Golfo e nello stesso Afghanistan sono in atto dinamiche che dovrebbero interessare molto da vicino un’Italia che, al momento, sembra solo interessata a “salvare il Natale” contro gli attacchi del Covid e della variante Omicron.
No, gli Stati Uniti non si stanno ritirando dal Medio Oriente
A livello macroscopico si può rilevare che, a differenza di quanto gli eventi afghani potevano lasciar credere, gli Stati Uniti non si stanno ritirando dal Medio Oriente. Titola esattamente così un’analisi della rivista Foreign Affairs, molto seguita negli ambienti diplomatici americani e non solo. Washington, si apprende, mantiene ancora una vasta rete di basi militari nell’area e si è dimostrata disposta a cooperare anche con interlocutori sgradevoli in nome del rafforzamento della sicurezza regionale. Gli Usa, questo è certo, non sono più l’unico attore globale in Medio Oriente. Gli investimenti economici e tecnologici cinesi e l’influenza militare della Russia sono molto cresciuti negli ultimi dieci anni. In questo senso, certamente, il momentum americano è finito. Ma non per quanto riguarda le linee strategiche.
Arabia Saudita e Israele: alleati sempre strategici per gli Usa
A fine novembre il Pentagono ha divulgato i contenuti del suo periodico “processo di Revisione della postura militare globale”, nel quale – a parte ampliamenti delle basi Usa in Australia e a Guam in funzione anti-cinese – non ci sono grossi sconvolgimenti negli asset militari americani nel globo. Medio Oriente compreso. Insomma, va bene orientarsi sempre di più verso il Pacifico – nell’ottica di quello che Barack Obama aveva battezzato “Pivot to Asia” – ma questo non vuol dire tirare i remi in barca in un’area in cui si trovano due alleati strategici degli Usa come Arabia Saudita e Israele.
Il programma atomico iraniano provoca fibrillazioni
Sia lo Stato ebraico che la monarchia araba sono ormai da anni i due pilastri della politica americana di contenimento nei confronti dell’Iran. Sono ripresi, tra l’altro, i negoziati a Vienna per il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015 (il JCPOA), abbandonato nel 2018 dall’allora presidente americano Donald Trump. Israele è schierato su posizioni nettamente contrarie all’accordo, tanto che – come accaduto periodicamente negli ultimi 30 anni – nello Stato ebraico si è tornati a parlare di raid sul suolo iraniano per colpire strutture legate al programma atomico di Teheran. Va precisato che la Repubblica islamica sta arricchendo l’uranio al 60%, ben al di sopra del limite del 3,67% previsto dall’accordo del 2015 ma anche ben al di sotto del 90% di purezza che occorre per un’arma nucleare.
In Libano situazione economica disastrosa
Mentre sui tavoli internazionali si gioca la partita del JCPOA, però, nell’area covano sotto la cenere le scintille di crisi locali ormai cronicizzate. Il Libano continua a vivere una situazione economica disastrosa, aggravata da tensioni di tipo sociale e politico. Dopo un sonoro fallimento a luglio 2020, sono ripresi proprio questo autunno i negoziati con il Fondo monetario internazionale (FMI) per tentare di alleviare le difficoltà di un sistema economico in cui l’80% della popolazione vive ormai al di sotto della soglia di povertà.
Iraq, l’ascesa del religioso sciita Al Sadr
In Iraq, dopo una tornata elettorale segnata dall’affluenza più bassa di sempre dalla caduta di Saddam Hussein (41%), il religioso sciita Muqtada al Sadr si è aggiudicato 73 seggi su 329 nel parlamento iracheno e avrà, quindi, un ruolo fondamentale nella scelta del prossimo primo ministro. Al Sadr è senza dubbio uno degli uomini più potenti del Paese, divenuto popolarissimo per la sua opposizione alla presenza americana ma anche per le sue prese di posizione contro l’Iran (e i movimenti-milizie ad esso vicini).
Nel silenzio più totale, prosegue la guerra in Yemen
Prosegue intanto anche la guerra in assoluto più dimenticata del nostro tempo, quella in Yemen, che vede fronteggiarsi il governo riconosciuto dall’ONU sostenuto da una coalizione internazionale a guida saudita e il movimento Ansarullah, spesso associato al nome degli Houthi, sostenuto dall’Iran. Parliamo di un conflitto in cui, secondo le stime di Save the Children, tra le vittime civili 1 su 4 è un bambino. Un dato che parla da sé.
Usa, contatti di alto livello con i talebani in Afghanistan
In Afghanistan, come si diceva all’inizio, le cose non si sono fermate con il ritorno al potere dei Talebani. Sebbene in molti si siano stracciati le vesti di fronte all’avanzata del movimento, preoccupati per l’inevitabile deterioramento dei diritti umani (soprattutto delle donne), la realpolitik impone altre traiettorie. I Talebani hanno capito di dover uscire dall’isolamento internazionale se vogliono mantenere il controllo del Paese, soprattutto di fronte all’ascesa dell’ISIS-K (la branca locale dello Stato Islamico). Il 29 e 30 novembre il rappresentante speciale americano per l’Afghanistan, Thomas West, ha guidato una delegazione interagenzia di alto livello – con rappresentanti del dipartimento di Stato, del dipartimento del Tesoro, dell’Usaid e della comunità d’intelligence – in un round di colloqui con alti rappresentanti dei talebani a Doha, in Qatar. Insomma, i contatti ci sono eccome.
Verso la riammissione della Siria nella Lega Araba
Infine, ma l’elenco potrebbe proseguire, ci sono importanti sviluppi in quella che è stata la peggior guerra del nostro tempo, ossia il conflitto in Siria. A dieci anni dall’inizio delle rivolte – sfociate prima in una guerra civile e poi in un conflitto su scala internazionale costato la vita a mezzo milione di persone – il mondo arabo sembra pronto a riaccogliere nel consesso diplomatico il regime di Bashar Al Assad. Si muovono in questa direzione Egitto, Giordania e – soprattutto – gli Emirati Arabi Uniti (primo Paese a riaprire l’ambasciata a Damasco). La riammissione della Siria nella Lega Araba – da cui era stata espulsa nel 2011 anche con il sostegno degli emiratini stessi – sembra ormai solo una questione di quando, più che di se. Su questa questione, come in parte anche sulle altre, la posizione italiana potrebbe dimostrarsi decisamente più netta di quanto attualmente non sia.