Oggi Siniša Mihajlović, allenatore del Bologna che si appresta ad affrontare l’Inter dopo aver fermato Milan e Juve, è un uomo degno di ammirazione per tutti quanti. La leucemia che lo ha colpito due anni e mezzo fa è come se avesse eliminato gli spigoli di un carattere e di una personalità maledettamente complessa.
Essere tra i due fuochi
Il 12 ottobre 2010 si trovava in tribuna a Marassi ad assistere allo show di Ivan Bogdanov, l’ultras serbo che ha messo a ferro e fuoco lo stadio di Genova. Si alzò e se ne andò, senza rilasciare dichiarazioni a caldo, probabilmente cosciente di essere in mezzo a due fuochi: anni dopo lo stesso Bogdanov definì Siniša un traditore della patria, mentre noi italiani abbiamo sempre rinfacciato, a torto o a ragione, una mai nascosta vicinanza dell’attuale allenatore del Bologna al nazionalismo serbo.
Da commissario tecnico della nazionale serba disse che – per la prima volta nella sua vita – assistendo alle scene di Marassi, si vergognò di essere serbo. Una certa stampa italiana restò sbigottita: ma come, si scandalizza di un capo ultras, ma non ha il coraggio di dire nulla su un genocidio?
Gli amici sono la cosa che conta di più nella vita
Che abbia dedicato un necrologio ad Arkan è risaputo; che fu lui a commissionare lo striscione della Nord laziale “Onore alla Tigre Arkan” è possibile. Siniša ha sempre negato di essere il “mandante” di quello striscione, esposto allo stadio Olimpico il 30 gennaio 2000, 15 giorni dopo che tre colpi di pistole alle spalle, sparati da un poliziotto 23enne all’Intercontinental Hotel di Belgrado, misero fine alla vita del leader paramilitare serbo. La difesa dell’attuale allenatore del Bologna è sempre stata molto chiara: “Arkan era un amico”. E questo era già più che sufficiente.
Nel film Big wendsday, capolavoro di John Milius, si trova l’emblematica frase “Gli amici sono la cosa che conta di più nella vita”. Semplice, lineare. Sinisa Mihajlović ha i suoi codici, le sue leggi, i suoi eroi. Una scazzottata giovanile (come quella del film) non è Sebrenica, non lo è per noi, non lo può essere in senso assoluto. Ma come ha detto Bear a Matt qualche minuto (cinematografico) prima di passare la bottiglia a Jack, “Gli amici si vedono proprio quando si ha torto”. Ancora più semplice, ancora più lineare.
Vita al confine
C’è un’altra storia emblematica che l’attuale tecnico del Bologna ha raccontato per la prima volta in un’intervista del 2009, a dieci anni esatti dall’inizio dei bombardamenti Nato sulla sua Serbia, episodio che è tornato attualissimo in questi giorni, dovendo l’Occidente interrogarsi sulla necessità di un intervento militare in Ucraina, terra di confine già nel nome (kranja in tutte le lingue slave significa proprio questo: confine).
Era la Serbia di Siniša Mihajlović ma – o forse, a maggior ragione “e” – anche di Slobodan Milošević e, appunto, di Željko Ražnatović. Madre croata e padre serbo, Siniša è nato cinquant’anni fa e per i primi venti è cresciuto a Vukovar, città di confine tra Serbia e Croazia di cui dal 1998 è tornata definitivamente a farne parte. La “Stalingrado croata” nel 1991 è stata protagonista della più grande battaglia combattuta sul suolo europeo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non in termini di durata – rispetto ai quasi quattro anni di assedio di Sarejevo, i tre mesi di Vukovar sono un’inezia – ma di violenza: dal 25 agosto al 18 novembre sono circa 7 mila, tra serbi e croati, i caduti in una cittadina che nel 1991 contava 46 mila abitanti e nel 2001 ne conterà un terzo in meno.
Buoni e cattivi
All’inizio del conflitto, prima che la guerra si trasferisse in Bosnia, come per esempio ha ricordato Emmanuel Carrère in Limonov dividere la questione in buoni e cattivi era praticamente impossibile. La polveriera era già esplosa e la madre di Mihajlović disse a suo fratello Ivo di scappare da Vukovar e rifugiarsi a Belgrado dal nipote, in forza da un anno alla Stella Rossa. “Io a casa di quel porco serbo non ci vado“, fu la risposta dello zio. Quando le truppe serbe presero Vukovar, Arkan catturò Ivo: “C’è uno che sostiene essere tuo zio” e Siniša, dall’altro capo della cornetta, confermò. Lo zio Ivo venne spedito a Belgrado dove Mihajlović, senza dire nulla alla madre, lo nascose per un mese a casa sua, salvandogli la vita.
In questi giorni in tanti, forse troppi, stanno pontificando sulla guerra in Ucraina, anche nel mondo dello sport. E per un Tuchel che, all’ennesima domanda a cui non saprebbe dare una risposta, giustamente sbotta “Listen, you have to stop, I’m not a politician. […] I have no experience for war” c’è un Sinisa Mihajlović che si commuove scandendo i momenti della sua vita in base alle esperienze belliche della sua Serbia.
Sinisa vinse la Coppa di Campioni con la Stella Rossa poco prima dello scoppio del conflitto balcanico, e si aggiudicò lo scudetto con la Lazio proprio nel periodo storico del già citato bombardamento NATO. Non è una questione di buoni e cattivi, né di categorie politiche. Difficile immaginare di comprendere i Balcani – ma si potrebbe allargare il discorso ad altre aree del planisfero – utilizzando gli strumenti dell’Occidente europeo, che risultano arcaici anche per valutare il nostro presente, figurarsi quello degli altri.
Guerra e malattia
“Non posso trattenermi dal dubitare che esiste una qualunque genuina realizzazione del nostro più profondo carattere, tranne la guerra e la malattia, quelle due infinità dell’incubo“. Così ha scritto Louis-Ferdinand Céline, e Siniša che le ha conosciute entrambe: sa bene di cosa si parla. Proprio in questi giorni ha rivelato come la leucemia sia tornata e ha utilizzato una metafora calcistica per spiegare a noi profani cosa significa lottare ogni giorno contro un nemico tanto viscido quanto spaventoso. “Questa volta non entrerò in scivolata su un avversario lanciato, come due anni e mezzo fa, ma giocherò d’anticipo per non farlo partire.”