Perché questo articolo potrebbe interessarti? In Italia un emendamento approvato al ddl sicurezza potrebbe presto equiparare la cannabis light alla cannabis con alte concentrazioni di principio attivo. Dall’altra parte del mondo c’è un Paese, la Thailandia, che aveva fatto l’opposto di Roma salvo poi cambiare idea. Bangkok aveva tentato di alleggerire le norme sul consumo di cannabis e marijuana per attirare più turisti. Risultato: un fallimento.
In Italia è stato approvato a inizio estate l’emendamento al ddl sicurezza che equipara la cannabis light a quella non light, ovvero con alti livelli di tetraidrocannabinolo (THC). Il governo Meloni ha sostanzialmente approvato una stretta sulla cannabis in cui la quantità del principio attivo delta-9-tetraidrocannabinolo è bassa o insignificante. Il prodotto rischia quindi di finire presto fuori legge, con tanto di divieto di importazione, cessione e vendita di “prodotti costituiti da infiorescenze di canapa”. Dal punto di vista economico c’è chi fa notare come la mossa dell’esecutivo potrebbe portare ripercussioni sull’economia. O meglio: su una filiera che nel nostro Paese fattura circa 500 milioni di euro all’anno e impiega migliaia di persone.
Al netto di valutazioni etico-morali, economiche o politiche, è curioso fare un parallelo con un Paese, molto lontano dall’Italia, la Thailandia, che ha cercato di muoversi nella direzione opposta rispetto a quella intrapresa dal governo Meloni. Salvo poi dover fare retromarcia a causa di mille problemi. Certo, i casi di Italia e Thailandia sono diversi. Può però essere accomunato il contesto di fondo, e cioè la scelta di alleggerire o meno le norme sulla cannabis light e derivati. In attesa di capire cosa accadrà al Belpaese in seguito alla decisione del governo Meloni, Bangkok, che ha fatto l’esatto contrario di Roma, ha alzato bandiera bianca.
La decisione del governo Meloni sulla cannabis light
L’articolo 2 della legge del 2016 permette a chiunque di coltivare cannabis senza autorizzazione soltanto se i prodotti sono idonei alla produzione di alimenti e cosmetici, materiale destinato alla bioedilizia, all’attività didattica o alla ricerca. Mancano i riferimenti all’uso ludico e ricreativo della cannabis, ed è per questo che le aziende hanno iniziato a coltivare cannabis light senza incorrere in conseguenze legali. Il governo Meloni ha deciso di voltare pagina attuando modifiche rilevanti all’intero dossier. Il motivo? Per evitare che chi assume i “prodotti costituiti da infiorescenze di canapa (Cannabis sativa L.)” possa mettere “a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica” oppure “la sicurezza stradale”. Le suddette novità non sono ancora entrate in vigore. Devono prima superare lo scoglio della Camera, a settembre, e quello del Senato (sempre che non emergano modifiche al ddl). Non dovrebbero però esserci sorprese data la maggioranza parlamentare a sostegno del governo.
Il caso della Thailandia
Due anni fa la Thailandia ha decriminalizzato l’uso ricreativo del consumo di cannabis a basso contenuto di THC, della marijuana e dei prodotti derivati con meno dello 0,2% di THC. Bangkok pensava di attrarre così più turisti e, al tempo stesso, offrire un ricco business agli agricoltori. A causa di un disastro politico e di un conseguente vuoto normativo, il Paese si sarebbe tuttavia trasformato in un vero e proprio far west. Nel giugno 2022, il governo guidato dall’allora primo ministro Prayut Chan-o-cha aveva deciso di fare il grande passo. Nel giro di poche settimane a Bangkok erano così spuntati migliaia di “dispensari” (circa 6 mila in tutto il Paese, 3 mila nella sola capitale) impegnati nel nuovo business legalizzato dalle autorità.
Caffé e negozi di ogni tipo si erano moltiplicati, riforniti da più di un milione di produttori ufficiali dotati della licenza di Plook Ganja (coltivazione di marijuana) concessa dalla della Food and Drug Administration thailandese e alimentati da 14 mila lavoratori. Nei frigoriferi dei minimarket 7-Eleven era possibile acquistare acqua alla cannabis; nei centri massaggi rilassarsi con massaggi alla cannabis; nei bar mangiare biscotti alla cannabis, e così via in un loop infinito. Un paradiso per i turisti stranieri, ben felici di sballarsi tra un’avventura amorosa e l’altra, immersi nelle acque cristalline del Mare delle Andamane o abbronzati sotto il sole del Golfo della Thailandia.
L’inversione a U di Bangkok
Poche settimane fa l’attuale primo ministro tailandese, Srettha Thavisin – successore di Prayut Chan-o-cha, l’artefice dell’ “erba libera” – ha ordinato un’inversione di marcia sulla politica della cannabis. Chiarissimo il messaggio: la pianta dovrebbe essere presto riclassificata come narcotico e il suo uso limitato ai soli scopi medici e sanitari. Insomma, l’esperimento della Thailandia di fare leva sul turismo stupefacente per arricchire l’economia nazionale è miseramente fallito. I negoziati per fare retromarcia sono in corso. La proposta del governo è stata presentata all’Office of the Narcotics Control Board a breve e, se approvata, entrerà in vigore a partire dal primo gennaio 2025.