Fine di un’epoca. Compiuta o fallita che sia – al momento il mondo sembra propendere per la seconda ipotesi – la missione in Afghanistan volge al termine, e con essa una fase della storia dell’umanità iniziata con l’attentato alle Torri Gemelle. Mentre la più difficile evacuazione della storia è ancora in corso, è tempo di bilanci e previsioni per la superpotenza americana che si scopre sempre meno globale in un mondo sempre più frammentato.
La professoressa Raffaella Baritono, docente di Storia e politica degli Stati Uniti d’America all’Università di Bologna, analizza ripercussioni e scenari della politica americana dopo Kabul.
Professoressa Baritono, che ripercussione avrà sulla presidenza Biden la caduta dell’Afghanistan in mano ai talebani?
Ha innescato e innescherà enormi problematiche sull’amministrazione Biden, soprattutto alla luce delle speranze che aveva acceso in questi mesi su una ripresa del multilateralismo e dell’internazionalismo liberale. Il ritiro caotico e il fallimento nella pianificazione gettano ombre sulla capacità della presidenza di far uscire la politica estera americana dal pantano in cui l’aveva gettata Trump. Su Biden aleggia il fantasma dell’amministrazione Carter, incapace di gestire la crisi degli ostaggi a Teheran nel 1979. Il presidente rischia di far precipitare la sua leadership e la fiducia nella sua capacità di gestione.
Si sente sempre più parlare di “neo-isolazionismo americano”. Cavalcata a gran voce da Trump e incombente su Biden, la volontà di disimpegno dal mondo è ormai connaturata nella società americana?
“Isolazionismo” è un termine contestato: gli Stati Uniti non sono totalmente ripiegati su sé stessi. È da poco uscito un libro di Charles Kupchan, Isolationism: A History of America’s Efforts to Shield Itself from the World, dove l’accademico e membro del Council on Foreign Relations traccia la storia dell’isolazionismo Americano. È una strategia di lunga tendenza che può risalire addirittura ai Padri Fondatori e che è stata strutturale per la politica estera americana, ma che dal 1945 non è più centrale. Gli impulsi isolazionisti nella società americana non si sono mai del tutto dileguati, riemergendo dopo il crollo del Muro e con maggior vigore sotto la presidenza Trump, ma si dimostrano anacronistici di fronte a uno scenario globale che non è più quello dell’Ottocento.
A vent’anni dall’11 settembre è realmente finita l’epoca degli Usa potenza egemone ma di stampo liberale?
Il punto centrale è l’incapacità della politica estera americana di fare i conti con il mutamento dello scenario globale dopo la fine della Guerra Fredda, un nodo a cui siamo ancora attorcigliati. L’internazionalismo liberale non riesce a capacitarsi del fatto che si è ormai frantumato il contesto dei cosiddetti gloriosi 30 anni, quando tra il 1945 e il 1975 strategia di potenza, partnership internazionale e crescita economica gettarono le basi per la cooperazione e la condivisione del modello americano in giro per il mondo.
Viviamo in un mondo in cui sono finite sia le speranze dell’internazionalismo liberale, sia le utopie neoconservatrici di un mondo unipolare. La sfida di Trump dell’America First era apparentemente chiara, quella di Biden non lo è ancora. Per gli Usa non sarà mai facile ritirarsi da un sistema di interdipendenza economico e di sicurezza con il mondo.
Come possono ritrovare credibilità internazionale gli Stati Uniti?
Gli Stati Uniti devono trovare il modo per ricomporre la frattura interna alla loro politica tra democratici e repubblicani: una cesura che continua a condizionare anche la politica estera della superpotenza. Un presidente non riesce più a fare affidamento sulla sponda del Congresso per una politica di ampia visione: è stato così per Obama, Trump e ora per Biden. Il problema è collegare le scelte di politica estera con un contesto interno così polarizzato da imporre costrizione alle scelte presidenziali. La Casa Bianca ora ha un raggio d’azione davvero corto. Gli Stati Uniti devono assolutamente trovare un nuovo perno attorno a cui orientare la propria strategia internazionale, sempre più alle prese con la sfida epocale cinese. In un contesto frammentato e disordinato come quello attuale, si sentono ancora categorie di pensiero e affermazioni antiquate come “esportare la democrazia”. Gli Stati Uniti devono riaffermare la loro leadership ma anche il loro potere di seduzione. La spinta per l’egemonia a stelle e strisce del passato secolo americano è stata l’attrattiva di un modello culturale, economico e politico da imitare. Serve un nuovo modello per riappacificare le due Americhe e affrontare problemi ancora sul tavolo: come razzismo, disuguaglianze, violenza e divisione. La leadership esterna americana per rilanciarsi deve guardarsi al suo interno. Altrimenti c’è il rischio di ricorrere esclusivamente a soluzioni militare, che gli eventi questi giorni hanno confermato non essere sufficienti.
Un cambio di politica estera a stelle e strisce quali conseguenze comporterebbe per la politica estera europea?
Il ridimensionamento americano passa dalla ridefinizione dell’Alleanza Atlantica, che ha toccato il suo fondo sotto la presidenza Trump. “America is back” di Biden portava con sé la speranza della ripresa dei tradizionali rapporti, ma se gli Usa sono “malati” non si può dire che gli alleati stiano bene. L’Europa non può più permettersi di essere junior partner di un’alleanza che ancora ruota sotto l’ombrello di sicurezza americano. Anche se gli Stati Uniti negli ultimi tempi guardano più al Pacifico che all’Atlantico, intorno alla Nato può ricostruirsi il perno di una leadership americana. Per fare questo è però necessario che l’Europa sia in grado di costituire un’unica voce, cosa che in questo momento pare ben lontana dall’essere possibile, basta guardare alla gestione dei migranti, della sicurezza e delle questioni economiche e di sanità. Un ripensamento americano potrebbe essere un’occasione che l’Europa può cogliere solo diventando un soggetto politico forte, con strategie e obiettivi chiari.
Quali sono le aree del mondo direttrici principali della politica estera americana?
Biden sta portando a compimento il percorso intrapreso da Obama di ridimensionamento degli impegni militari internazionali americani. Nella riconfigurazione dello sforzo globale americano il Medio oriente giocherà un ruolo sempre più periferico, mentre la competizione con la Cina reciterà il ruolo principale. Il Dragone sta sfidando lo Zio Sam su quello che tradizionalmente era il terreno principale di costruzione dell’egemonia: l’innovazione tecnologica. Gli Stati Uniti dovranno capire in breve come si strutturerà la competizione con la Cina, dovranno quindi guardare sempre più alla tecnologia e al Pacifico. Il contenimento non passa più esclusivamente attraverso la potenza militare e tramite conflitti periferici, ma attraverso una rete tecnologica e di alleanze. Il meccanismo automatico dell’intervento americano in ogni area di crisi – già criticato da Obama – sarà sempre più improbabile in futuro. Il perimetro della sicurezza americana si è ristretto: rimane globale ma il Congresso è sempre più restio a finanziare missioni internazionali, soprattutto se prevedono invio di truppe boots on the ground. In questa geometria variabile gli Stati Uniti dovranno fare scelte precise tra obiettivi prioritari e secondari.