Perché leggere questo articolo? Da destra Mario Adinolfi affonda contro il governo sul suicidio assistito. Criticando l’assenza di coraggio che a suo avviso emerge dall’assenza di critiche per il caso di Trieste.
“Non si può essere pro-vita solo a parole e in campagna elettorale”: Mario Adinolfi non fa sconti al governo Meloni e alla maggioranza di centrodestra alla luce del primo caso di suicidio assistito sostenuto dal Servizio sanitario nazionale della storia italiana, andato in scena ieri a Trieste. “La notizia di oggi è che a un’attenta lettura dei giornali non si trova una voce della maggioranza che si levi criticamente contro i fatti di Trieste è sconcertante”, sottolinea il giornalista e politico, già deputato e oggi presidente del Popolo della Famiglia. “Così com’è sconcertante il fatto in sé“.
Presidente, come giudica i fatti di Trieste?
Sul suicidio assistito la deriva che sta prendendo l’Italia è preoccupante. Io ho 52 anni e mi sono sentito immedesimato in quella donna a cui è stata data la morte tramite iniezione, di cui ero quasi coetaneo. Una donna disabile ha trovato la morte con la stessa iniezione con cui, in Texas, pochi mesi fa la morte è stata data a un altro nostro coetaneo che aveva sparato in testa a tre persone. E, beninteso, sono contrarissimo alla pena di morte. La deriva che stiamo prendendo è preoccupante.
Sul suicidio assistito che prospettive vede?
Stiamo prendendo una deriva alla olandese o alla canadese per la nostra società. E peraltro la sentenza della Corte Costituzionale che ha sdoganato questo fatto dice che il suicidio assistito è depenalizzato se sussiste un caso di disabilità e di totale dipendenza dalle macchine che, nella fattispecie in questione, non c’era. Mi fa rabbrividire leggere comunicati come quello dell’Associazione Luca Coscioni sul tema. C’è una pressione politica e mediatica per portare in Italia ciò che succede ad oggi in soli tre Paesi nel mondo, Belgio, Olanda e Canada. Contesti in cui il suicidio assistito è normato e legalizzato. A cui si aggiunge la Svizzera, che di fatto tollera il suicidio assistito a pagamento nelle cliniche elvetiche.
Cosa la preoccupa del caso del suicidio assistito alla olandese o canadese?
Innanzitutto la portata del fenomeno. Pensiamo a un fatto: lo scorso anno in Canada e Olanda hanno scelto il suicidio assistito ben 20mila persone complessivamente. Parliamo di Paesi che sommati hanno una popolazione inferiore a quella dell’Italia. E i dati mostrano che la crescita del ricorso al suicidio assistito, alla morte per iniezione, è continua anno dopo anno in ogni Paese in cui viene introdotta. Questa è la società verso cui vogliamo andare? La storia ci ha insegnato che quando i meccanismi di questo genere hanno alla base un profilo di interesse economico quest’ultimo viene trasformato in costume e sostanziale coercizione.
A cosa si riferisce?
Prendiamo un semplice dato: curare una persona disabile le cui prospettive di vita non permetteranno una guarigione completa costa molto, economicamente e non solo. Costa sul piano del sostegno, dell’impegno dei famigliari, dell’apporto di servizi e strutture per tutelare la disabilità e valorizzare la vita in ogni sua forma. Dare la morte tramite iniezione costa giusto quanto il valore di quest’ultima: tredici euro. Dietro la retorica della scelta di ogni persona che si trova in una dramma umano c’è la crudeltà di un sistema sociale che pressa nella direzione della creazione di un clima favorevole a far sì che i malati intraprendono tale percorso. Una società in cui si parla di suicidio assistito più che di dignità del malato, di servizi per i disabili e di una vera inclusività non dà il diritto di scelta, piuttosto il contrario.
Sul caso di Trieste e sul suicidio assistito lei ha criticato il silenzio del centrodestra
Ribadisco, non basta dirsi pro-vita per difendere la vita. Alla prova dei fatti bisogna dimostrarsi capaci di agire. Se da una parte politica abbiamo visto un marketing politico osceno e una deriva contro la vita, dall’altro abbiamo visto quanto alle chiacchiere di ieri non siano corrisposte azioni politiche reali. E essere per la vita solo a chiacchiere è un problema.
Chi dovrebbe parlare, a suo avviso?
Innanzitutto mi stupisce il silenzio del governatore del Friuli Venezia-Giulia, Massimiliano Fedriga. Da presidente di un partito politico, trovo irritante il fatto che non si sia esposto nonostante sia stato il suo sistema sanitario regionale a gestire il caso del suicidio assistito di Trieste. Evidentemente ogni sua parola creerebbe una contraddizione all’interno della maggioranza. Non dimentichiamo che il Friuli confina con il Veneto ove Luca Zaia, leghista come Fedriga, è un sostenitore di queste pratiche. Mentre nella maggioranza parlamentare si sceglie la linea del silenzio…
Ritiene quindi difficile vedere Meloni pronta a esporsi sul suicidio assistito?
C’è come un non detto nei partiti di governo. Chi critica queste derive rischia, e a me succede spesso, di essere attaccato come retrogrado e bigotto. Servirebbe essere più onesti, piuttosto, e magari esplicitare la paura di essere presi in prima persona come retrogradi e bigotti come giustificazione dell’inazione. La Corte Costituzionale, del resto, dice che il Parlamento deve esprimersi. E chi ha le leve del potere è chiamato ad esercitarle. Greg Abbott, governatore repubblicano del Texas e persona disabile, ad esempio lo ha fatto sull’aborto. Ha vietato la pratica nel suo Stato e in un anno gli aborti sono scesi da 50mila a 34. A prescindere dal giudizio sul tema, è una dimostrazione di come chi ha la possibilità di agire può incidere sui fenomeni, se ha la volontà di farlo.
Cosa bisognerebbe fare a suo avviso sul suicidio assistito in Parlamento?
Sul tema è ora di decidere se bisogna riaffermare la chiara esposizione dell’Articolo 580 del Codice Penale, che vieta l’omicidio del consenziente, oppure seguire i desideri di associazioni come la Coscioni e di Marco Cappato. Che quando si presenta alle elezioni mostra come il suo pensiero non sia condiviso dalla maggioranza dell’elettorato, tanto che alle suppletive di Monza ha raccolti meno voti di quanti avrebbero dovuto essere quelli dei partiti che lo sostenevano sommati tra loro.