Sin da quando l’aggressione russa in Ucraina ha avuto inizio la scorsa settimana molti osservatori hanno dato per scontato che Vladimir Putin abbia agito con il sostanziale benestare della Cina. Quest’ipotesi probabilmente corrisponde al vero, dal momento che Mosca ha dispiegato lungo il confine ucraino – e poi all’interno dei territori di Kiev – una grossa porzione del proprio potenziale bellico. Come facilmente intuibile, un tale spostamento di forze ha lasciato in parte “sguarnite” altre zone dell’immenso territorio della Federazione. Un minimo d’intesa con Pechino, quindi, era necessaria ad assicurarsi che la Cina non avrebbe approfittato per tentare avventure militari in Asia centrale a danno dei russi. Ciononostante, sul piano politico e diplomatico, la posizione cinese è stata finora molto più ambigua e sfumata. Volutamente, ambigua e sfumata.
I rapporti tra Mosca e Pechino nella “nuova guerra fredda”
Ben prima che l’invasione in Ucraina avesse inizio, diversi media occidentali e italiani (come ad esempio La Repubblica) avevano iniziato a parlare apertamente di “Nuova Guerra Fredda” in riferimento al confronto egemonico fra Stati Uniti e Cina per il dominio globale. Federico Rampini, grande firma di Rep passato di recente al Corsera, aveva intitolato già nel 2019 un suo libro “La nuova guerra fredda”. Ma quale posizione occupa la Russia in questo ipotetico nuovo mondo bipolare diviso fra l’aquila americana e il dragone cinese?
A giudicare dalla posizione adottata da Pechino all’inizio dell’offensiva russa in Ucraina si potrebbe dire che sì, in un certo senso la Repubblica popolare si schiera al fianco dei russi. Ciononostante, quella tra Mosca e Pechino si configura più come una convergenza tattica che come un’intesa destinata a diventare strategica. I motivi sono certamente di natura storica, ma anche legati alla strettissima attualità.
Cina e Russia, un rapporto ambiguo
Innanzitutto occorre ricordare che a cavallo tra ‘800 e ‘900 la Cina è stata, suo malgrado, il terreno di scontro fra i due grandi imperi dell’area, cioè quello russo e quello giapponese. E’ successo con la guerra del 1905 (vinta dai nipponici), e poi ancora nel 1939 e nel 1945 con l’invasione russa (ormai sovietica) della Manciuria dominata dal Manchukuo, il governo fantoccio della Cina nord-orientale e Mongolia interna controllato da Tokyo. Insomma, le forze di Mosca si sono più volte sporcate gli stivali di terra cinese, oltre a impegnarsi negli stessi anni in altre zone a noi più vicine.
Il rapporto fra Cina e Russia si è mantenuto ambiguo anche dopo la presa del potere da parte di Mao Tse-tung e dei comunisti. La nuova Cina maoista, infatti, aveva sicuramente mutuato diversi elementi organizzativi e ideologici dal comunismo sovietico (come ad esempio la creazione del Quotidiano del Popolo sul modello della Pravda), ma fu chiaro sin da subito che Pechino aveva intenzione di trovare una propria via al socialismo reale, diversa e slegata da quella di Mosca. Fu in questa faglia che il Vietnam di Ho Chí Minh, grazie ad una voluta e intelligente ambiguità, riuscì a garantirsi sia il sostegno di Pechino che di Mosca durante la guerra con gli americani. Fu in questa divisione, poi, che gli Stati Uniti riuscirono ad incunearsi con la storica visita del presidente Richard Nixon in Cina del 1972. L’inquilino della Casa Bianca, e la sua eminenza grigia Henry Kissinger, sembravano aver capito già allora che l’URSS e la Repubblica popolare avevano in mente idee del futuro completamente diverse.
Cina e Russia, agende differenti (e a volta inconciliabili)
Allo stato attuale, Cina e Russia hanno agende differenti – talvolta inconciliabili – per quello che riguarda la politica dell’Asia centrale, nelle repubbliche ex sovietiche e anche nell’Artico (dove è in via di sviluppo una vera e propria corsa all’oro per le risorse naturali). Quanto al dossier energia, Mosca e Pechino hanno importanti rapporti per quello che riguarda l’approvvigionamento di gas. La Cina, da superpotenza industriale qual è, ha un bisogno praticamente insaziabile di risorse energetiche. Nei primi undici mesi del 2021 nei territori del dragone sono arrivate a 6,6 milioni di tonnellate di gas russo tramite condotte, un aumento del 2,9% rispetto allo stesso periodo del 2020. Mosca tenta in questo modo di diversificare i destinatari delle sue esportazioni, dal momento che crisi come quella in atto possono da un lato lasciare Europa (e Italia) senza gas, ma allo stesso tempo lasciare Mosca con quantità considerevoli di gas invenduto da gestire.
Ciononostante, Pechino non ha la minima intenzione di farsi intrappolare nella tagliola del gas russo, tanto è vero che il primo fornitore di gas rimane nettamente il Turkmenistan. Questo restando nell’ambito del trasporto via gasdotti. D’altra parte, a differenza del Vecchio Continente, Pechino ha puntato molto anche sul Gas naturale liquefatto (Gnl), installando impianti di rigasificazione in grado di trasformare il metano trasportato via nave da fornitori come Australia, Stati Uniti e Qatar.
Quando si parlava dell’ingresso della Russia nella Nato in funzione anti-cinese
In generale, Mosca sente tutto il peso economico dell’ingombrante vicino asiatico e sa perfettamente che in un’alleanza strategica finirebbe per giocare il ruolo del partner minore. Non è un caso se, già da un decennio, esiste un filone di pensiero che pensa addirittura ad una possibile ammissione della Russia nella Nato in funzione anti-cinese. Ipotesi che in questi giorni suona come una bestialità. Già nel 2010, la rivista americana Foreign Affairs (non Sputnik o Russia Today) osservava che “la Nato ha tradizionalmente trattato la Russia come un paria strategico”. Ma ora “l’Occidente ha urgente bisogno della cooperazione di Mosca su una serie di questioni. Una visione per trasformare la Russia in un membro produttivo della comunità euro-atlantica è a portata di mano: la Russia dovrebbe aderire alla Nato. Anche se la Nato correrebbe un rischio strategico ammettendo la Russia, l’Alleanza atlantica corre in realtà un rischio strategico ancora maggiore escludendola”.
Dal punto di vista diplomatico, per tornare alla crisi in Ucraina, la Cina ha puntato il dito sin dall’inizio contro gli Stati Uniti e l’Occidente per non aver ascoltato le preoccupazioni russe circa la sicurezza. A questo si aggiunge il fatto che Pechino non ha mai parlato di “invasione” quanto piuttosto di “escalation” o al massimo di “offensiva”. Ciononostante, in una sorta di delicato equilibrismo tattico, autorità di Pechino come il ministro degli Esteri Wang Yi hanno ribadito – anche nelle scorse ore – la disponibilità cinese a mediare fra le parti per porre fine alla guerra in corso.
Ucraina, gli equilibrismi di Pechino e le forze centrifughe interne
Dietro l’ambiguità della Cina ci sono ragioni fortemente pragmatiche. Vista da Pechino, la crisi ucraina è il sintomo di un vecchio Continente ancora alle prese con gli strascichi della guerra fredda, uno spazio politico che non ha ancora capito cosa fare da grande. Quella ucraina, insomma, è una situazione in cui la Repubblica popolare, orientata soprattutto al confronto con gli Usa nel Pacifico, non ha voglia di invischiarsi in modo troppo pesante. D’altro canto, temi come l’integrità territoriale e la sovranità rappresentano ferite aperte per il presidente cinese Xi Jinping, che deve fare i conti con forze centrifughe e separatiste in Tibet, nello Xinjiang e a Hong Kong. Se, ad esempio, Pechino dovesse riconoscere la sovranità russa o l’indipendenza da Kiev di Donbass e Crimea, cosa impedirebbe di applicare lo stesso principio alle zone che cercano di slegarsi dalla Cina (spesso adducendo motivi linguistici e culturali)? Nel dubbio, il governo cinese sceglie l’ambiguità strategica.