Quanti di voi negli ultimi giorni hanno postato sui social contenuti relativi alla guerra in Ucraina? Avete sentito il bisogno compulsivo di essere aggiornati sull’invasione russa in corso e siete stati soddisfatti da influencer che si improvvisano esperti di geopolitica e strategia? Anche quando non potete fisicamente assorbire in maniera compulsiva, podcast e canali di infotainment sulla guerra fanno da sottofondo a ogni vostra azione?
La comunicazione è da sempre strumento bellico, ma oggi ancora di più. I media moderni sono pervasivi e quindi abbiamo accesso illimitato a notizie su questa guerra. Ne vogliamo sempre di più, perché così ci sembra di partecipare. Guardiamo i video in presa diretta, le testimonianze di prima mano. Senza accorgercene, facciamo circolare anche molte bufale, nella fretta di stare al passo con l’ultima notizia.
La guerra russo-ucraina si combatte tanto con le armi quanto con la comunicazione. Da un lato, un regime autoritario che da anni fa uso di propaganda e fake news per tenere sotto controllo la sua popolazione e per interferire nella politica mondiale. Dall’altro un presidente, ex uomo di spettacolo, che nei suoi discorsi trasmessi online si mostra in luoghi simbolo del suo Paese vestito con i colori dell’esercito e usa i social come pungolo per spingere i paesi UE e Nato a prendere posizione in suo favore.
Lo storytelling nel racconto dell’invasione russa in Ucraina è molto importante: sia dal punto di vista ucraino, che da quello russo, o semplicemente di chi, al sicuro con in mano il suo smartphone, può permettersi di esprimere la sua opinione. Di raccontare quella che gli sembra sia la vera storia, anche se in realtà non ha i mezzi per comprenderla. È rassicurante perché inquadra senza possibilità di dubbio i buoni e i cattivi, ci illude di capire com’è andata finora e soprattutto di poter indovinare quale sarà il finale.
Dovremo prendere coscienza del fatto che i mezzi che abbiamo sono potenti. E in questo momento li stiamo usando in un modo poco sano. Li sfruttiamo per fare indigestione di dati e di numeri, di aneddotica strappalacrime, di complottismi e di solidarietà esibita. Il rischio di questa abbuffata di contenuti sulla guerra è di non riuscire a mettere gli eventi in prospettiva, di accumulare informazioni, ingozzarci sempre di più finché non ce ne verrà la nausea, non avremo più spazio per nulla e allora ce ne distaccheremo. Gli esperti di comunicazione la chiamano infodemia, il virus dell’informazione.
Tra qualche giorno potremmo svegliarci la mattina e il nostro primo pensiero non sarà andare a controllare le novità sull’Ucraina. Ma anzi, com’è già accaduto col Covid, potremmo averne un rifiuto totale. Smetteremo di parlarne, di condividere informazioni e persino meme, e torneremo a fingere che sia una realtà lontanissima da noi. Avremo ancora una volta danneggiato la capacità umana di provare empatia per il prossimo, in nome dei click e dei like. E forse avremo aiutato la causa dell’invasione, con la nostra ritrovata indifferenza. Possibile che non ci sia una via di mezzo tra morbosità e disinteresse?