Non esistono giustificazioni storiche per fare una guerra d’invasione, tantomeno contro uno stato che sta dimostrando sul campo la sua ragion d’essere. Il professor Stefano Petrungaro, docente di Storia dell’Europa orientale all’Università Ca’ Foscari di Venezia, spiega le ragioni storiche, culturali e – soprattutto – politiche per cui l’azzardo militare di Vladimir Putin in Ucraina non sta pagando.
Putin ha definito l’Ucraina “solo un’espressione geografica”. Cosa dice la storia?
Una prima risposta è semplice: l’Ucraina ovviamente non è solo un’espressione geografica, perché è uno Stato, un soggetto del diritto internazionale, che il 24 agosto 1991 è subentrato alla preesistente Repubblica socialista sovietica ucraina, fondata il 24 dicembre 1917. Ma la considerazione che si potrebbe aggiungere è che l’affermazione putiniana riposa su una classica ingenuità metodologica, ossia che esistano alcuni stati “artificialmente creati”, rispetto ad altri, più naturalmente e storicamente legittimi. Al contrario, tutti gli Stati, non solo quello ucraino, sono stati a un certo punto fondati e rifondati. L’artificiosità è una caratteristica dei progetti statali, che non esistono in natura, e sono appunto prodotti storico-culturali, tutti, inclusa la Federazione russa, l’Italia, la Germania e gli Stati Uniti. Volendo, si potrebbe anche aggiungere che il ragionamento è viziato pure da un certo determinismo geografico, che ingenuamente ritiene esistano “mere espressioni geografiche”, ossia denominazioni spaziali “naturali”: tutte le rappresentazioni dei grandi spazi, invece, sono anch’esse costrutti socio-culturali. L’Ucraina pertanto, non è solo un’espressione geografica in un doppio senso: non solo perché è uno Stato, ma anche perché non può essere una “semplice” espressione geografica, poiché non vi sono espressioni geografiche “semplici”, ossia semplicemente date.
Quali sono le caratteristiche culturali, demografiche e storiche della nazione ucraina?
Anche qui, una prima risposta semplice descrive due macroregioni, con percorsi storici differenti, con lingue in parte diverse: una con maggiori comunità russofone e quindi apparentemente più russa, a est/sud-est; un’altra più ucrainofona e “propriamente” ucraina, a ovest. Ma, di nuovo, gli studi interdisciplinari hanno approfondito le identità collettive, analizzando la compresenza di più identità (di classe, di genere, territoriale, professionale) nell’auto-percezione degli individui e delle collettività, per non parlare di tutti gli studi sulla cosiddetta “indifferenza nazionale”, molto più diffusa di quanto non ci abbiano detto i sostenitori dei vari nazionalismi. E allora: parlare russo non significa semplicemente e automaticamente percepirsi come nazionalmente russo, men che meno auspicare l’annessione o la sottomissione politica del paese alla Russia. Il bilinguismo, poi, è prassi consuetudinaria per moltissimi cittadini ucraini (e non solo), in misura e con caratteri diversi. Certe mappe linguistiche in circolazione soffrono quindi di pesanti semplificazioni, spesso strumentali. Piuttosto, tutte le esperienze statali del passato, e del presente, di carattere multilinguistico, multiconfessionale e multietnico, dovrebbero sollecitarci con forza a pensare in maniera molto più sfumata e senza pregiudizi società come quella ucraina.
Le rivendicazioni russe sui territori dell’est-ucraino sono giustificate? Quali sono i rapporti storici tra i due paesi?
Per non cadere nella trappola retorica e ideologica dei nazionalisti, è bene precisare che il quesito non è di carattere storiografico, ma politico. Non esistono giustificazioni storiche per fare le guerre, tanto meno se d’aggressione. Le vicende del passato, sebbene sempre evocate per legittimare i conflitti, non autorizzano mai a mettere in crisi l’ordine giuridico internazionale, la pace nel mondo, l’esistenza di società e individui. Nella fattispecie del caso che stiamo discutendo, i rapporti storici tra i due paesi sono intensissimi, di lungo periodo, affascinanti proprio per la loro complessità, che nel tempo ha portato a infiniti scambi culturali, ibridazioni, condivisioni, come pure tensioni e conflitti. Difficile riassumere tutto in poche parole, se non dicendo che è una storia comune, che andrebbe rispettata proprio in quanto tale, come molti studiosi, artisti, militanti russi e ucraini fanno, senza invece approfittarne per imporre, per giunta violentemente, forme di subalternità.
Fino a dove si potrebbe espandere la Russia?
Fino ad ora pensavo che il regime di Putin si volesse limitare a mantenere e in parte recuperare il controllo indiretto su alcune repubbliche ex sovietiche, senza necessariamente spostamenti di confini internazionali e quindi vere e proprie annessioni. Già questo era uno scenario fosco. Ma alla luce degli ultimi avvenimenti, diventa difficile immaginare il prossimo futuro.
La crisi che stiamo vivendo ha dei precedenti nello spazio ex-sovietico?
Quanto sta avvenendo in Ucraina ha dei tratti di somiglianza con il conflitto in Georgia (altra repubblica ex sovietica) rispetto alle regioni indipendentiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud, che pure vide nel 2008 l’intervento delle truppe russe. Non lo accomunerei invece all’esperienza della Cecenia, che è una repubblica facente parte della Federazione russa.
Come è stata accolta la guerra nel mondo slavo?
Le reazioni al conflitto sono state abbastanza variegate. I fattori che hanno influito sulle prese di posizione sono anzitutto due: l’interdipendenza politica del singolo paese dalla Russia e dal governo putiniano; e il coinvolgimento in proprie contese territoriali. Pertanto, in Polonia o in Croazia la condanna è stata netta o quasi. Alcuni leader filo-putiniani come Viktor Orbán, invece, o certe destre radicali, e soprattutto paesi molto vicini alla Russia e alla politica putiniana, come la Repubblica serba di Bosnia, o la Serbia, hanno invece dimostrato tentennamenti: a tratti molta comprensione, se non pieno sostegno nei confronti dell’aggressione russa all’Ucraina. Questa è una conferma, tra le tante che si potrebbero evocare, dell’estrema pericolosità di quanto sta avvenendo: perché sarebbe della massima gravità già solo se riguardasse esclusivamente i due paesi direttamente coinvolti; ma è evidente che le sue ripercussioni, in numerose e imprevedibili forme, si faranno sentire in tutta Europa, e oltre.
Dalla “guerra di Putin” siamo arrivati a dichiarare guerra a Dostoevskij? Che senso ha sospendere un corso universitario per ragioni di opportunità politica?
Non ha nessun senso ed è molto grave. I momenti di crisi dovrebbero soltanto stimolarci ulteriormente a studiare: per capire, e per dotarci di quegli strumenti interpretativi necessari per contrapporsi a politiche aggressive.