Perché leggere questo articolo? La cronaca delle ultime settimane ha messo in evidenza le responsabilità e le problematiche di quanto viene pubblicato online. Un tema che in Italia è stato sollevato per la prima volta nel 2006 dalla causa di Vivi Down a Google. L’avvocato Guido Camera ha difeso l’associazione nel processo. Sulla vicenda ha poi scritto il libro “La legge è uguale anche sul web”.
Pubblicità occulta spacciata per beneficienza, finte recensioni che portano al suicidio, porn revenge. Il vaso di Pandora dei contenuti pubblicati online e sui social è stato definitivamente scoperchiato. Le tristi vicende di cronaca, dalla rete sono balenate prima al centro del dibattito pubblico e infine nelle discussioni politiche che hanno portato a un regolamento AgCom e al cosiddetto ddl Ferragni. Vicende recenti, che hanno però alle spalle una lunga storia. Il tema della responsabilità legale di quello che viene pubblicato in rete è stato discusso per la prima volta in Italia nel 2006. Con la causa avviata dall’associazione Vivi Down contro Google. True-news.it ha intervistato l’avvocato Guido Camera, Presidente di ItaliaStatoDiDiritto, che ha difeso Vivi Down in quella storica causa. Sulla vicenda ha poi scritto il libro “La legge è uguale anche sul web“.
Avvocato Camera, ci spiega per sommi capi il processo Vivi Down vs Google?
La causa Vivi Down-Google ha generato due filoni processuali tra il 2006 e il 2010, quando la vicenda si è definitivamente conclusa. Su quello che allora si chiamava Google Video – prima che il provider rilevasse YouTube – era comparso un video, registrato in una scuola secondaria una scuola media. Veniva diffuso un atto di bullismo nei confronti di un ragazzo che aveva un evidente disabilità alla presenza della professoressa.
Come si è sviluppata la causa?
L’associazione Vivi Down venne nel 2006 da me per avere tutela e rispetto dei profili reputazionali, visto che era richiamata esplicitamente nel video. In una finta telefonata, di cui era autore un dei bulli. L’obiettivo era di natura educativa, ma anche valoriale. In quanto è un’associazione che tutela le persone con la sindrome di down. Io feci una querela alla Procura di Repubblica di Milano e nacquero due procedimenti. Uno di fronte al tribunale dei minori di Torino, perché vennero identificati questi ragazzi come alunni di una scuola nella competenza del capoluogo torinese. Il procedimento minorile si concluse con una buona mediazione tra minori e il ragazzo. Ci fu un procedimento tradizionale a cui presi parte. Produsse dei buoni effetti, con una forte assunzione di responsabilità da parte dei minori, che ottennero un percorso di messa alla prova.
E il secondo filone?
A Milano si aprì un procedimento per reati in violazione del Testo Unico in materia di privacy dalla rilevanza penale. Ci fu un’ipotesi di diffamazione e venivano ritenuti responsabili persone con ruoli dentro il provider. Il presupposto era che Google avesse la possibilità di controllare il contenuto, e nonostante ciò fosse stato pubblicato. Il presupposto giuridico era la capacità di controllare contenuti, che secondo una norma del codice penale fa scattare una responsabilità all’art. 40 co.2. La cosiddetta ‘posizione di garanzia’ dice che chi ha un obbligo giuridico di impedire un evento e non lo fa è come se lo avesse cagionato. Il processo Vivi Down – Google si concluse in primo grado di fronte al Tribunale di Milano con una assoluzione dalla diffamazione, perché il giudice non ritenne sostanzialmente provata la possibilità di controllare preventivamente il contenuto, con una condanna per le violazioni in materia di privacy.
Come si è conclusa la vicenda?
Vivi Down non partecipò ai gradi successivi di giudizio. La Corte di Appello di Milano e la Corte di Cassazione diedero ragione agli imputati dichiarando che non c’erano neanche le violazioni in materia di privacy. C’era un grande tema giuridico: quello della responsabilità dei contenuti. All’epoca dei fatti, quindici anni fa, la questione verteva principalmente sui contenuti associati anche alle tematiche della pubblicità.
Che effetti ha avuto la causa Vivi Down sulle responsabilità dei provider e dei social?
Il grande clamore mediatico aiutò un percorso di presa di coscienza e di responsabilizzazione. Quando iniziò la casa Vivi Down, ancora non si capivano le differenze tra chi faceva cosa a livello di gestione dei contenuti. Il mondo della raccolta pubblicitaria sul web era ancora agli albori. Il processo ha portato la Corte di Giustizia a prendere una posizione rispetto alla responsabilità. A definire i provider, come Google. C’era una legge del 2003 che all’epoca disciplinava la materia, distinguendo tra i content provider e i commit provider. Distinguendo la signoria di fatto dei contenuti, in base alla produzione autonoma o alla semplice diffusione. E’ stata la prima causa a livello italiano che fece scoppiare la consapevolezza delle conseguenze culturali, sociali e giuridiche di questi strumenti di comunicazione e di condivisione. Sembra preistoria, ma non sono passati neanche vent’anni.
Quanto c’è di attuale diciamo nelle tematiche a livello di giurisprudenza di responsabilità?
Il tema di fondo rimane molto attuale. La responsabilità di chi fa del business sul web è legata alle condotte degli utenti. E’ un tema di sistema. Anche perché oggi abbiamo tutti sotto gli occhi. non solo il grande aspetto delle potenzialità dei social, ma anche le forme di leadership che hanno gli influencer. Abbiamo visto anche quanto la comunicazione sul web e la condivisione di contenuti, soprattutto dopo il lockdown, può influenzare e toccare le paure della gente. E condizionarne i comportamenti.
A che punto è la giurisprudenza oggi, rispetto agli anni della causa?
La Corte Costituzionale nel 2020-2021 è intervenuta sul reato di diffamazione e ha confermato la pena detentiva per quei fatti gravi come la manipolazione, le fake news. Si lega il pericolo offensiva alla manipolazione del consenso in vista delle grandi partecipazioni elettorali. Perché è una questione sistemica. Oggi siamo arrivati – con fatica- a questo primo accordo con AI Act a livello europeo. La differenza è chiara. Gli Stati, le legislazioni necessitano dei tempi tecnici di conoscenza dei fenomeni per arrivare a delle leggi equilibrate ed efficaci. Ci sono molti beni giuridici da proteggere: la sicurezza, la trasparenza, la libertà effettiva di esercizio delle proprie idee, del proprio voto. E vanno anche tutelati i diritti di iniziativa economica, di tutte quelle forme di business che nascono attorno all’intelligenza artificiale. E’ difficile intervenire, ma ce la si può fare.
Dalla vicenda Vivi Down vs Google lei ha anche scritto un libro.
Sì, “La legge è uguale anche sul web. Dietro le quinte del caso Google-Vividown“. Nel libro misi una metafora con il Faust di Goethe: i dati personali sono la nostra anima del futuro. All’epoca mi aveva destato preoccupazione la facilità con cui noi li regalavamo al web, che solleticava il nostro narcisismo, ripagandoci in modo effimero. Gli operatori si garantiscono un patrimonio notevole grazie ai nostri dati, visto che la profilazione consente di influenzare scelte e comportamenti. Già ai tempi della causa Vivi Down si poteva presentire le distorsioni derivanti dalla profilazione. Ai quei tempi preoccupava soprattutto l’aspetto pubblicitario. Ma dietro resta il tema della manipolazione dell’utente, per indirizzarlo. Fino magari arrivare a influenzare non solo a livello commerciale, ma anche politico e sociale.
Cosa manca per una vera regolazione del web e dei social?
Innanzitutto, qualsiasi regolamentazione avrà sempre un difetto. Il web è uno strumento globale, invece il legislatore è limitato territorialmente. Trovo positivo che si inizi a regolamentare a livello europeo, cercando di tutelare da forme inaccettabili di profilazione. Penso alla polizia predittiva, ai riconoscimenti facciali. Viviamo in un territorio, l’Europa, che ha più attenzione per i diritti e le libertà rispetto ad altri. Pensiamo alla Cina, dove il sistema usa le tecnologie per il controllo massivo dei cittadini. Il Gdpr nel 2022 è stato una prima importante sintesi legale sul tema della privacy. Fondamentalmente una grande consapevolezza del legislatore e da parte dei governi delle potenzialità ma anche dei rischi.
Qual è la sfida del legislatore per il futuro?
La sfida è di riuscire a contemperare i valori tradizionali di una società pluralista, come quella che in definitiva viviamo in Italia e in Europa, con le esigenze di ammodernamento tecnologico. Tutto questo, evitando pericolose e surrettizie distorsioni dello Stato di diritto. Le genesi delle regole e la formazione dei precedenti giurisprudenziali sono fisiologicamente troppo lente, rispetto all’evoluzione del mondo del web. Ma non possiamo perdere tempo, visto che abbiamo già imprenditori che cercano di impiantare microchip nel cervello di esseri umani. Ci sarà sempre una zona ancora non regolamentata nell’infosfera, dove imperano le nuove tecnologie. Per ora, venendo alla domanda, quello che è fondamentale intervenire sugli influencer, sulla loro potenza di fuoco, visto che abbiamo tutte le conoscenze e gli strumenti per farlo facilmente.
Come si differenziano gli influencer dai media?
Sono figure leader del mondo della comunicazione, non paragonabili a quelle tradizionali; di cui però abbiamo conoscenza delle varie dinamiche, positive e negative. I giornali per certi versi sono stati già sconfitti dalla televisione, che a sua volta non guardano le nuove generazioni, tutte improntate alla comunicazione sul web. Sta trionfando la cultura della disintermediazione, per questo serve individuare forme di tutela moderne e adeguate. “Controllare” è, però, una parola che non mi piace, se non nei casi estremi. L’ideale è “responsabilizzare”. La società, e quindi il legislatore, devono stimolare la responsabilità. Laddove c’è un forte senso di responsabilità individuale, la legislazione può permettersi di essere leggera. Basterebbero poche regole per coniugare libertà, sicurezza, sviluppo sociale ed economico. Non dobbiamo diventare robot con Intelligenza artificiale; dobbiamo impegnarci tutti un po’ di più