Perché questo articolo potrebbe interessarti? L’8 marzo 2023 l’associazione Antigone ha presentato “Dalla parte di Antigone”, primo rapporto sulle donne detenute in Italia. La ricerca mostra le condizioni delle donne ristrette. Le detenute devono ritagliarsi uno spazio che spesso non è a loro misura e si trovano a vivere in situazioni che portano avanti stereotipi e non creano opportunità.
Il 4,2% della popolazione detenuta sono donne che si ritrovano a vivere in spazi creati per sottrazione, ossia spesso ricavati all’interno delle sezioni delle carceri maschili che vengono riadattate, ma che per conformazione strutturale non rispondono alle esigenze delle detenute. Le donne in carcere in Italia sono una minoranza della popolazione detenuta, ma scontano il peso di un sistema detentivo plasmato sulle esigenze, i bisogni e le peculiarità maschili. Da qui, ci si interroga su quali siano le condizioni in cui vivono le detenute, i problemi e le mancanze che devono affrontare ogni giorno tra le mura delle carceri, in quella che invece dovrebbe essere una condizione che rispetti e si avvicini alla realtà esterna.
Alcuni numeri della detenzione femminile
“Erano 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2023, di cui 15 madri con 17 figli al seguito. Le quattro carceri femminili presenti sul territorio italiano (a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) ospitano 599 donne, pari a un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro ospita 9 madri detenute e altri tre piccoli Icam ospitano 5 donne in totale. Le altre 1.779 donne sono sostanzialmente distribuite nelle 44 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili”. È questo il quadro tracciato in “Dalla parte di Antigone“, il primo rapporto sulle donne detenute in Italia, redatto dall’associazione Antigone.
Sempre secondo il report: “Il numero più alto di donne detenute si trova nel Lazio (390), vista la presenza a Roma del carcere femminile più grande d’Europa. Seguono la Lombardia (386) e la Campania (326)”.
Tra mitologia e realtà: le condizioni delle detenute
Antigone, personaggio della mitologia greca, oltre a essere la figura che dà il nome all’associazione, in questo caso assume valore simbolico e si fa portatrice delle caratteristiche che le vengono attribuite nel mito: è simbolo di lotta e determinazione. Ma non basta soffermarsi su questa interpretazione, si deve andare al di là della retorica delle donne guerriere per riflettere sulla privazione della libertà contro cui si deve intraprendere un percorso che passi attraverso il riconoscimento dei diritti delle donne ristrette.
Il report intende offrire uno sguardo su tutte le carceri e le sezioni femminili in Italia, comprese quelle minorili e i reparti che ospitano detenute trans collocate nelle sezioni femminili.
Per fare il punto della situazione si ragiona per macroaree: ragazze e carcere minorile, donne straniere, bambini in carcere, detenute trans, istruzione-formazione-lavoro, suicidi e autolesionismo. Ma la lista non finisce, Antigone va a fondo e riporta le varie sfaccettature della vita delle detenute attraverso le storie delle persone.
“Non si possono costruire gli spazi per sottrazione ma si deve tenere conto della specificità. Il diritto si costruisce facendolo aderire ai singoli casi”, spiega Giovanni Russo, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, durante la presentazione del report.
Il rapporto con l’esterno: il lavoro fa da collante
Altro nodo cruciale è costituito dalle relazioni familiari e con l’esterno. A facilitare il reinserimento sociale dovrebbero essere i percorsi lavorativi. In questo caso il dato registrato mostra che le donne in carcere sono inserite in questo tipo di percorsi in percentuali maggiori rispetto agli uomini. “Al 30 giugno 2022 (ultimo dato disponibile) le donne lavoratrici erano 1.118, pari al 5,8% del totale delle persone impiegate. Di queste, 925 (l’82,7%) lavoravano alle dipendenze dell’amministrazione e 193 (il 17,3%) per esterni”.
A costituire degli ostacoli contribuiscono le disparità tra un luogo e un altro. Da questo fattore dipende il tipo di offerta: più è ampia e ricca, più ciascuno può trovare ciò di cui ha bisogno. È importante orientare l’offerta formativa proposta in percorsi non stereotipati al femminile né che facciano leva sull’infantilizzazione. Queste attività devono essere un ponte con l’esterno, per aiutare a costruire dei rapporti che possano condurre al fine pena e all’integrazione.
Bisogna accendere i riflettori sul tema sanitario
Due interventi in particolare portano al centro il tema della salute, della prevenzione e della cura. Tamar Pitch, direttrice della rivista “Studi sulla Questione Criminale” e docente di Filosofia e Sociologia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia, cita tre date importanti che hanno visto la condizione delle donne detenute al centro del dibattito italiano: il 1992 anno in cui esce la prima ricerca sulla detenzione femminile in Italia, il 2016 durante gli Stati Generali dell’esecuzione penale (2015-2016) su “Donne e carcere” e infine il 2023 con questo nuovo report di Antigone.
Pitch si sofferma sulla medicina di genere: “Paradossalmente, è nelle carceri femminili che le detenute accedono per la prima volta alla possibilità di esami per la prevenzione di patologie al seno e agli organi riproduttivi”. La professoressa Pitch precisa che “Finora, la (scarsa) attenzione delle istituzioni nei confronti della detenzione femminile si è diretta quasi unicamente sulla maternità in carcere, trascurando o ignorando le esigenze delle detenute in tema di salute fisica e psichica, diverse da quelle maschili”. Pitch non esita: “Bisogna insistere sulla necessità dell’introduzione della medicina di genere nelle carceri”.
Anche Lucia Castellano, provveditrice regionale della Campania, pone l’accento sulla salute, ma fa una riflessione che parte dalla comunità penitenziaria per arrivare al territorio: “Non si riesce a trasformare la comunità penitenziaria. Serve una cultura della formazione che permetta all’amministrazione di acquisire uno sguardo di sistema sui diversi settori territoriali. Questo significa immaginare percorsi di tutela della salute fisica e psichica”.
Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti della regione Lazio, si focalizza sugli spazi che dovrebbero essere destinati all’affettività e dice che “la nostra società deve fare i conti con la sessuofobia”. Il suo intervento si sposta poi su un episodio di cronaca: nella notte di martedì 7 marzo è morta una donna nel carcere di Rebibbia. Anastasia racconta la vicenda: la detenuta, tossicodipendente, aveva 47 anni ed era entrata per la prima volta in carcere a vent’anni. Sono seguiti 27 anni di vicende che l’hanno portata dentro e fuori dal carcere.
Poi, nella notte fra sabato 4 e domenica 5 marzo, a causa dell’aggravamento di una misura cautelare, la donna entra di nuovo in carcere. Dopo un paio di giorni (passati in osservazione per le norme Covid) muore e, come da prassi, vengono avviate le indagini. Come precisa Anastasia il decesso sarebbe potuto avvenire anche all’esterno, ma questo fatto ci fa riflettere sullo stato del sistema sanitario dentro il carcere. “Il problema è la comunità fuori. Il carcere non può essere l’ospizio dei poveri dove lasciamo le persone che non sappiamo dove mettere. Serve un’integrazione tra servizi sociali e sanitari del territorio affinché questi episodi non si ripetano”.
Decostruire lo sguardo sul carcere: non si può seguire la strada neutra
È Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà, a parlare di sguardi sul carcere: “Ci sono tre tipi di sguardo sull’esecuzione penale: uno sguardo maschile, uno sguardo neutro che è sempre falso perché nella nostra società declinare al neutro significa sempre adottare la visione maschile e infine uno sguardo femminile, molto diverso da questo attuale sguardo neutro”. Per Palma bisogna interrogarsi su “Quale può essere lo sguardo femminile sulla privazione della libertà”.
Sicuramente bisogna superare la categoria della vulnerabilità che spesso non dà dignità soggettiva alle persone; bisogna superare nell’ “offerta trattamentale” le attività che portano avanti stereotipi. “Non può esserci neutralità. La neutralità è sempre un concetto falso”, conclude Palma.