“Atroce è il mio rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità di magistrato intemerato”. Risuonano ancora forti per la loro inusitata veemenza le accuse che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano espresse nel pomeriggio del 26 luglio 2012, appena due ore dopo la morte per infarto del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio. Stroncato a 64 anni da problemi cardiaci di cui soffriva da tempo ma che – questo sembravano sottendere anche le parole del presidente – furono acuiti dalle tensioni di quella terribile estate in cui su alcune testate – il Fatto quotidiano su tutte – uscirono le intercettazioni di alcune telefonate tra il collaboratore del Quirinale e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, coinvolto nell’inchiesta dei pm palermitani Antonio Ingroia e Nino Di Matteo sulla trattativa Stato-mafia.
Di una drammatica correlazione erano convinti anche i familiari di D’Ambrosio, che il 21 luglio del 2017 depositarono una istanza di riconoscimento del giurista come “vittima del dovere”. A sei anni di distanza da quando tale richiesta fu formulata, la quarta commissione del Csm lunedì 9 ottobre ha bocciato all’unanimità l’istanza. Uno schiaffo ai familiari che riapre la ferita di una vicenda tanto umanamente dolorosa quanto delicata per le figure coinvolte e gli ambigui scenari che hanno fatto da cornice alla scomparsa del servitore dello Stato.
Il curriculum di D’Ambrosio, da Falcone a Napolitano
Magistrato di lungo corso, D’Ambrosio si era formato come pm a Roma negli anni della banda della Magliana. Poi l’ingresso al Ministero della Giustizia, nel periodo in cui Giovanni Falcone era direttore degli Affari Penali. D’Ambrosio fu capo di gabinetto di quattro diversi guardasigilli, sino alla chiamata da parte del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi come consigliere giuridico. Incarico che D’Ambrosio mantenne anche con il successivo inquilino del Colle. Una carriera specchiata. Travolta dall’inchiesta palermitana sulla presunta trattativa Stato-mafia nel 1992-1993.
Mancino, la trattativa Stato-mafia e le telefonate con D’Ambrosio
L’ex ministro Nicola Mancino, all’epoca solo testimone, era intercettato perchè sospettato di non dire la verità sui fatti del 1992. La prima delle telefonate a D’Ambrosio che finirono nei faldoni dell’inchiesta risale al 25 novembre del 2011. Mancino aveva ricevuto una citazione dai magistrati palermitani che volevano di nuovo interrogarlo. Non nascose il suo disappunto sbottando: “Il solito Di Matteo”. Nella seconda telefonata emergevano alcune considerazioni fatte da D’Ambrosio tra due scuole di pensiero manifestatesi negli anni Novanta: chi come Scalfaro e Parisi propendeva per l’alleggerimento del 41 bis e chi come Mori o Di Maggio chiedeva un più facile accesso alle carceri degli investigatori.
La terza telefonata, risalente al 12 marzo 2012, era – come si vedrà – quella più problematica: D’Ambrosio leggeva a Mancino la lettera che il Presidente della Repubblica fece scrivere al procuratore generale della Cassazione, per sollecitare un intervento su Pietro Grasso, allora procuratore nazionale antimafia, per assicurare il coordinamento delle indagini tra le procure di Palermo e di Caltanissetta. Una missiva che risultò poi spedita il 4 aprile.
Le telefonate intercettate (e distrutte) tra Mancino e Napolitano
Mancino non telefonava solo a D’Ambrosio ma anche allo stesso Napolitano: quattro le intercettazioni registate e poi distrutte per decisione della Corte Costituzionale, dopo che il Quirinale aveva sollevato un conflitto di attribuzione contro la procura davanti alla Corte Costituzionale. Gli stessi sostituti procuratori ai quali furono consegnate dichiararono che si trattava di conversazioni irrilevanti ai fini processuali. Non così per le telefonate con D’Ambrosio. L’ipotesi che iniziò a essere messa in circolo fu che attraverso il consulente giuridico, Mancino avrebbe esercitato pressioni su Napolitano per ottenere aiuto ad uscire dalla stretta dei pm palermitani. In tal senso qualcuno cominciò ad interpretare la richiesta di coordinamento tra procure avanzata dal presidente della Repubblica.
Il 16 giugno una nota del Quirinale faceva sapere che “per stroncare ogni irresponsabile illazione sul séguito dato dal capo dello stato a delle telefonate e ad una lettera del senatore Mancino in merito alle indagini che lo coinvolgono” veniva pubblicata la missiva che il segretario generale del Quirinale, Donato Marra, aveva spedito il 4 aprile al procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito. Un tentativo – a conti fatti vano – di mostrare come non ci fosse alcun tipo di indebita pressione.
D’Ambrosio sotto i riflettori: le dimissioni respinte
Lo stesso 16 giugno il consulente del Quirinale fu intervistato da Marco Lillo per il Fatto quotidiano. Spiegò di aver ascoltato gli sfoghi di Mancino, rigettando tuttavia qualsiasi accusa di essersi ingerito nel processo palermitano o di aver esercitato pressioni sui pm palermitani. Se questa doveva essere la finalità delle telefonate di Mancino al Colle, gli stessi magistrati negarono di aver mai subito interferenze.
Due giorni dopo tuttavia D’Ambrosio consegnò la propria lettera di dimissioni: “Signor presidente, i fatti di questi giorni mi hanno profondamente amareggiato personalmente ma, in via principale, per la consapevolezza che la loro malevola interpretazione sta cercando di spostare sulla Sua figura e sul Suo altissimo ruolo istituzionale condotte che soltanto a me sono invece riferibili”. D’Ambrosio evidenzia la necessità di “adeguati coordinamenti finalizzati a raggiungere o consentire univoche verità processuali”, e si rammarica che tali stimoli vengano letti “come modi obliquamente diretti a favorire l’una o l’altra interpretazione di fatti o situazioni indiziarie o solo sospette su episodi gravissimi della nostra Storia. E, in genere – perché mediaticamente più conveniente – come un modo per impedire che escano dai cassetti procedimenti che toccano o lambiscono apparati o rappresentanti istituzionali”.
D’Ambrosio proseguiva: “E’ accaduto così che qualche politico o qualche giornalista sia arrivato ad accostare o inserire chi, come me, non accetta schemi o teoremi prestabiliti all’interno di quella zona grigia che fa di tutto per impedire che si raggiungano le verità scomode del ‘terzo livello’ o, per dirla in altre parole, è partecipe di un ‘patto col diavolo’, non sta dalla parte degli italiani onesti ed è disponibile a fare di tutto per ostacolare un pugno di pubblici ministeri solitari che cercano la verità sul più turpe affare di stato della Seconda Repubblica: le trattative tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Tutto ciò è inaccettabilmente calunnioso”. Napolitano respinse le dimissioni del suo collaboratore.
La campagna battente del Fatto sulle telefonate tra D’Ambrosio e Mancino
Ma la campagna del Fatto nel frattempo proseguiva: il 21 giugno furono pubblicati i primi stralci della telefonata tra D’Ambrosio e Mancino del 12 marzo. La tesi appare chiara: la richiesta di coordinamento tra le diverse procure espressa da Napolitano sembrava andare nella direzione delle aspettative di Mancino, che non aveva fiducia negli inquirenti palermitani. E D’Ambrosio era il tramite.
Napolitano, parlando ai cronisti a margine della festa della Guardia di finanza a L’Aquila ribattè duramente: “Negli ultimi giorni si è alimentata una campagna di insinuazioni e sospetti nei confronti del presidente della Repubblica e dei suoi collaboratori, una campagna costruita sul nulla. Si sono riempite pagine di alcuni quotidiani con le conversazioni telefoniche intercettate in ordine alle indagini giudiziarie in corso sugli anni delle più sanguinose stragi di mafia, 1992-1993, e se ne sono date interpretazioni arbitrarie e tendenziose, talvolta persino versioni manipolate. Ma tutti coloro che sono intervenuti, e stanno intervenendo avendo seria conoscenza del diritto e delle leggi e dando una lettura obiettiva dei fatti, hanno ribadito la assoluta correttezza del comportamento della presidenza della Repubblica ispirata soltanto a favorire la causa dell’accertamento della verità anche su quegli anni. Continuerò ad operare affinché l’azione della magistratura vada avanti nel modo più corretto e più efficace, anche attraverso i necessari coordinamenti. I cittadini possono essere tranquilli che io terrò fede ai miei doveri costituzionali”.
Il 22 giugno il quotidiano diretto da Padellaro rispose ponendo in prima pagina “Otto domande al presidente della Repubblica”. Si leggeva tra l’altro: “Il presidente si dissocia o ritiene lecito intervenire su un collegio del tribunale o su un pm per evitare un confronto tra un testimone qualsiasi e un altro testimone più amico che rischia un’incriminazione? Ritiene il presidente di essere stato indotto in errore dal suo consigliere o ritiene giusto intervenire sul procuratore generale per chiedere al procuratore nazionale antimafia di rafforzare il coordinamento tra procure al fine reale però – da quello che dice il suo consigliere giuridico al telefono – di evitare un confronto scomodo a un testimone?” In vece di Napolitano rispose il consigliere per la comunicazione del Quirinale, Pasquale Cascella: “Il presidente della Repubblica non ha da rilasciare commenti né tanto meno conferme o smentite, in merito a frammenti di conversazioni private intercettate dalla polizia giudiziaria e pubblicate da alcuni quotidiani”.
E si arriva così al 23 giugno ed alla pubblicazione integrale delle trascrizioni delle conversazioni tra D’Ambrosio e Mancino sul sito del Fatto. Nulla di rilevante penalmente, tanto che gli stessi Francesco Messineo, procuratore della Repubblica palermitana, l’aggiunto Ingroia ed il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso smentirono pubblicamente di aver subito pressioni di alcun tipo dal Quirinale. Se il vero obiettivo era evidentemente Napolitano, a finire nel tritacarne era soprattutto D’Ambrosio. Con in particolare l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro che cavalcò la polemica giungendo a chiedere l’istituzione di una commissione d’inchiesta.
La morte per infarto di D’Ambrosio
Poco più di un mese dopo, D’Ambrosio sarebbe morto d’infarto. Ai funerali nella chiesa romana di Santa Susanna il 28 luglio, tra le tante autorità, Napolitano in lacrime con la mano sulla bara e l’allora ministro della Giustizia Paola Severino, che durante la funzione parlò così: “E’ difficile parlare di un uomo che ha sempre adempiuto alle proprie elevatissime funzioni cercando soluzioni costruttive, intelligenti ed equilibrate, in un momento in cui la polemica rischia di travolgere la ragione e di trasformarsi in sterile scontro, anziché volgere verso una seria meditazione sulla giustizia in Italia, sui danni che ad essa e ai cittadini reca la cultura del sospetto, sul ruolo di una magistratura che sempre di più deve riaffermare le proprie garanzie di autonomia e indipendenza non solo su ciò che fa, ma anche su ciò che appare. Non riusciva a capacitarsi come potesse essere accusato, con tanta veemenza, di aver voluto interferire su indagini in tema di mafia, proprio la materia che aveva costituito il centro di un suo impegno così intenso”
D’Ambrosio “vittima del dovere”: la richiesta negata dal Csm
A seguito della morte di D’Ambrosio, i suoi parenti avviarono la richiesta di accesso ai benefici previsti per i familiari di chi è stato vittima del dovere o “equiparato vittima del dovere” disciplinati dalla legge 206 del 2004. Ci sono voluti anni per avere una risposta. Che è stata negativa e non lascia molti spiragli. La Commissione del Csm parla infatti di “insussitenza dei presupposti”. L’ultima parola spetta al plenum che si riunirà il prossimo mercoledì, ma che difficilmente ribalterà una indicazione espressa all’unanimità e che poggia sul parere dell’Ufficio Studi del Csm.