Il Giovane Berlusconi è a piede libero su Netflix. Si tratta di una docu-serie in tre episodi volta a narrare gli anni d’oro del rampante Cavaliere in ascesa. Il titolo ha creato, fin dal momento dell’annuncio, ilarità massima. I più mattacchioni, per esempio, lo hanno immediatamente ricollegato a quel capolavoro che è e per sempre sarà ‘Boris’ in cui, tra le altre mille profezie, Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti) saltellava per i prati nel ruolo de “Il Giovane Ratzinger”, fiction Rai. Invece, tutto vero.
Da giovedì 11 aprile è possibile gustarsi, sulla piattaforma della grande N, tre ore di cotanto mappazzone silviesco. Vale la pena di pigiar play? Purtroppo o per fortuna, no. Essendo sopravvissuti alla visione, siamo qui a darvi conto dell’abisso. Il Giovane Berlusconi è una serie che il patron del Bunga Bunga in persona avrebbe fatto carte false pur di impedire che uscisse. Perché è noiosa da morire, lo dipinge come un venerabile fossile del passato, arriviamo a dire che gli facciano tuttora miglior “pubblicità” le intercettazioni di Nicole Minetti “at de stescion” e l’intero scandalo Ruby Rubacuori…
Il Giovane Berlusconi è di una noia mortale (e ce ne voleva, eh!)
Il Giovane Berlusconi è di una noia mortale. Incredibilmente, la docu-serie riesce a sopprimere perfino l’unica (per alcuni) indiscutibile qualità che il Cavaliere avesse dalla nascita: la sua verve. Berlusconi non è mai stato vecchio, tra barzellette e savoir faire all’italiana, si è sempre mostrato in grado, nel bene e nel male, di partorire battute fulminanti, frasi celebri che rimarranno negli annali, risposte piccate, gag dal potenziale televisivo dinamitardo. Purtroppo, poi ha sbagliato carriera finendo Presidente del Consiglio invece di fare il capocomico a Zelig. Di fronte a una Rai che come picco di intrattenimento spinto proponeva lo sceneggiato sul Vangelo girato da Zeffirelli, Silvio ha messo in piedi una inizialmente piccola rete privata, privatissima. Il segnale di ‘TeleMilano’ raggiungeva solo i palazzi da lui erti tra Brugherio e Milano 2. Letteralmente, la copertura di un francobollo. Ma le trasmissioni erano già piene di contenuti. A proporli, comici scartati da mamma Rai, tette, culi e paillettes. Poi perfino Mike Bongiorno che, ipnotizzato dal carisma (e dal cachet) del Berlu, voltando le spalle al Servizio Pubblico dopo decenni di onorata carriera, è approdato e su un canale che, per allora, l’Italia interna neanche poteva vedere. Intanto, a poche settimane dalla nascita dell’emittente, ecco spuntare i porno in quella che oggi definiremmo “seconda serata”. Berlusconi, in pratica, aveva capito già negli anni ’80 un concetto semplice quanto rivoluzionario ad avere il coraggio, l’audacia di realizzarlo per davvero: la gente aveva voglia di divertirsi. Gli sceneggiatori di questa docu-serie, purtroppo, si sono evidentemente scordati ‘sto principio cardine. Che agonia.
Non si può raccontare Silvio tramite quattro vecchi in poltrona
Teche, materiali d’archivio, un giovanissimo Mike Bongiorno in piena trepidazione di fronte a lui, Silvio Berlusconi, l’uomo del fare, l’imprenditore, il genio che s’è pure comprato il Milan. Non prima di aver fatto chiamare al telefono fisso, emerge dalla serie, quanti più italiani possibili per capire se i tifosi di altre squadra, interisti in primis, avrebbero continuato “a volergli bene” dopo l’eventuale acquisto del team calcistico rossonero. Intuizioni fulminanti che avrebbero cambiato la storia d’Italia, smargiassate, sorrisi ammaliatori, champagne a profusione. Il tutto raccontato da quattro vecchi addivanati, come esige la struttura del ‘classico documentario Netflix’. Che si parli di un caso di cronaca nera o della vera storia delle origini della cassöla, non si scappa: ci saranno sempre quattro vecchi addivanati, o ripresi a mezzo busto dietro alle loro polverose scrivanie, a darcene conto. Ora, certo non si poteva pretendere che gli amichetti suoi di gioventù potessero apparire ancora imberbi oggi, anno delle Signore 2024. Allo stesso tempo, però, questo tipo di narrazione ingessata soffoca il mirabile brio delle teche in cui è lo stesso Berlusconi a parlare. Sarebbero bastate quelle per mettere in piedi un progetto croccantissimo. Mai una domanda su dove lui, nato nella periferia-cloaca di Milano, avesse preso tutti quei soldi per mettere in piedi il proprio impero. Craxi comunque “non rideva mai alle sue barzellette”, questo viene detto.