Adesso sì: è ora. Con il terzo posto in Nations League – ma il ragionamento sarebbe stato identico a prescindere da piazzamento – Roberto Mancini non ha più scuse per compiere, finalmente, il Wembleycidio. Chiudere, una volta per tutte, con l’Italia formato Euro 2021. Cancellare un successo certo memorabile ma raccontato con un trionfalismo assurdo. Una vittoria tanto godibile quanto deleteria per le conseguenze nei due successivi anni del ciclo azzurro manciniano. Quali? L’Italia fuori dai Mondiali e l’affidamento costante a chi il meglio, in azzurro, l’aveva già dato, pur di inseguire l’obiettivo immediato della final four della Nations League che, se non altro, garantisce alcuni vantaggi nella definizione dei gironi di qualificazione europei.
Una Giovane Italia per il 2026?
Non che Mancini non abbia inserito o ripescato giovani capaci di portare aria fresca nell’ambiente. Ma se l’obiettivo era – ed è – tornare a giocare i Mondiali nel 2026, ogni partita in più con Bonucci, Toloi e il pur eccellente e prezioso Acerbi (rispettivamente classe 1987, 1990 e 1988), è stata un’occasione persa per iniziare a dare responsabilità a ragazzi che, di qui a United 2026, dovranno per forza prendersi la Nazionale.
Vale anche per chi dovrà sostituire Jorginho (1991) e Verratti (1992), nonché Immobile (1990) che in Nazionale è lontanissimo dalle medie realizzative che lo hanno accompagnato in A. Così, se è vero che non è mai troppo tardi, è altresì vero che, nell’ultimo biennio azzurro, Mancini ha accumulato un certo ritardo, evidenziato dalle difficoltà incontrate in diverse gare del 2022 e di questo 2023.
La riconoscenza in Italia non funziona
Conservatorismo e riconoscenza, per definizione, nel calcio come in politica non funzionano. Enzo Bearzot e Marcello Lippi, che un ragionamento del genere – ma con le loro specificità – avevano già fatto il medesimo errore di Mancini dopo i titoli iridati del 1982 e del 2006. Ci sono cascati nel 1986 e nel 2010. In quest’ultimo caso anche per colpa della Figc, che giubilò senza tanti pensieri Donadoni dopo il ko dell’Italia ai rigori con la fortissima Spagna a Euro 2008.
L’Inter e la Juventus hanno fatto lo stesso la prima dopo i successi di Mourinho, la seconda con il progressivo invecchiamento della squadra capace di vincere nove scudetti consecutivi. Il risultato? Anni di scelte discutibili e bocconi amari. In questo senso, al contrario, la criticatissima – da tanti, a priori – scelta di lasciare andare senza troppi problemi i vari Koulibaly, Mertens e Insigne, effettuata da De Laurentiis la scorsa estate, ha rappresentato per il Napoli la via maestra verso un titolo epocale.
Del resto è anche una questione di autotutela. Mantenere troppo a lungo le stesse figure, facendole crescere in immagine percepita, finisce per minare l’equilibrio di qualsiasi organismo. Sia esso una squadra di calcio, un partito o un’azienda. Consente la creazione di strutture e apparati informali che mirano al mantenimento di una quota di potere. Si tratta di un meccanismo sociale che finisce per incidere negativamente sulla competitività dell’organismo stesso, incancrenito da un sistema di relazioni – sostanzialmente i cerchi magici che si formano attorno a figure dotate di autorevolezza e buone connessioni, intese anche come capacità lobbistiche e buone entrature in determinati contesti – che ha impatto sulla fluidità delle dinamiche di sviluppo di un gruppo.
L’Italia non è un paese per rottamatori
L’antidoto non si trova né nella rottamazione, né nella retorica dell’uno vale uno. Entrambe sciattamente foriere di danni nel tessuto politico e sociale nell’Italia dell’ultimo decennio. Il punto non è nemmeno criticare tout court della gerontocrazia al potere. Ma avere al contrario scientemente distrutto, nel corso degli anni, tanto le scuole di partito quanto i settori giovanili del calcio. E di lì la formazione, la graduale responsabilizzazione e il lancio delle nuove leve, favorendo in tal modo il mantenimento del privilegio di una presunta insostituibilità da parte di chi, a certi livelli, è già arrivato. Un meccanismo molto italiano, replicato in un diverse situazioni. E che nel calcio si svela talvolta in campo, pur essendo limpido e visibile a livello federale, da dove tutto discende.