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La boxe olimpica al tappeto. E non a causa di Imane Khelif

La boxe olimpica al tappeto. E non a causa di Imane Khelif

Perché leggere questo articolo? L’allucinante caso Carini vs Khelif ha inferto l’ennesimo colpo che rischia definitivamente di mettere al tappeto la boxe alle Olimpiadi.

La gazzarra politica che si è scatenata in Italia prima e dopo l’incontro di pugilato femminile dei Giochi di Parigi 2024 tra l’italiana Angela Carini e l’algerina Imane Khelif, combattuta a suon di ganci di disinformazione, montanti di ipocrisia e basso costo e jab di strumentalizzazione, ha inferto l’ennesimo colpo alla boxe, un colpo che questa volta rischia definitivamente di mettere al tappeto il pugilato alle Olimpiadi. Il caso Carini-Khelif – che, peraltro, è un caso solamente in Italia, pur avendo avuto vasta eco istituzionale, dato il rilievo delle figure politiche coinvolte – è però solo l’ultimo pretesto, la tempesta perfetta che potrebbe portare alla ufficializzazione dell’uscita della noble art dal programma olimpico a partire da Los Angeles 2028.

Fuori dai Giochi

Il pugilato infatti attualmente non compare nella lista provvisoria delle discipline ammesse alle prossime Olimpiadi, né vi è mai comparso. C’è, alla base di tutto, lo scontro politico-istituzionale tra il Cio, il Comitato Olimpico Internazionale, e l’Iba, l’International Boxing Association, la federazione pugilistica internazionale, scontro che non è neppure estraneo ai prodromi – la querelle sulle regole di eleggibilità e i gender test, in questo senso – di quanto di accaduto a Parigi. Anche perché è fondamentale ricordare che ai Giochi di Parigi, così come già era avvenuto a quelli di Tokyo, al contrario di quanto accade per le altre discipline, non è la federazione internazionale a organizzare e sovrintendere il pugilato olimpico, ma direttamente il Cio, attraverso la sua Boxing Unit.

Lo scontro Cio-Iba

Qual è il motivo? Il Cio aveva sospeso l’Iba (allora nota con l’acronimo di Aiba) dal circuito olimpico nel giugno 2019, dando un ultimatum alla governance della federazione, allora presieduta dal chiacchierato businessman uzbeko Gafur Rakhimov, affinché ponesse rimedio a una gestione accusata di scarsa trasparenza economica e ripetutamente al centro di diversi scandali. Sostanzialmente a Iba venivano contestate la dipendenza economica dal colosso russo Gazprom, impresa controllata dallo Stato (un aspetto filosoficamente contrario ai principi del Cio) e una gestione corruttiva di giudici e arbitri: un rapporto indipendente commissionato allora dal Cio all’avvocato canadese Richard McLaren confermò infatti comportamenti non conformi e incoerenti tanto nella selezione dei giudici quanto nella correttezza dei procedimenti disciplinari, anche nel corso delle Olimpiadi di Londra 2012 e Rio 2016, le ultime organizzate dalla federazione. Insomma: corruzione, manipolazione dei risultati sportivi e un legame incestuoso con una holding a partecipazione statale.

Iba nel 2020 ha cambiato presidente ed eletto Umar Kremlev, russo e vicino a Putin, ma questa e altre mosse non sono state ritenute soddisfacenti dal Cio che, anzi, ha visto in tutto ciò una nuova provocazione: ciò ha significato il mantenimento della sospensione (e dunque l’organizzazione della boxe a Tokyo da parte del Cio) e infine il ritiro del riconoscimento olimpico per la federazione, avvenuto nel giugno 2023. Sedici mesi prima, peraltro, l’invasione russa in Ucraina aveva ulteriormente aumentato il livello dello scontro: l’Iba infatti, essendo a trazione russa e allora sospesa dalla famiglia olimpica, aveva scelto di ammettere alle proprie competizioni anche gli atleti russi e bielorussi, banditi invece nei contesti riconosciuti dal Cio. 

Giochi di potere

L’Iba aveva fatto ricorso al Tas di Losanna avverso l’espulsione, ma lo scorso aprile il Tribunale arbitrale dello sport lo aveva rigettato, dando ragione al Cio. Non solo: la federazione internazionale, a inizio luglio, ha inoltrato un ennesimo ricorso contro il trattamento ricevuto dal Cio, stavolta al Tribunale federale svizzero, che ha incasellato il procedimento e ora indagherà e giudicherà a sua volta.

Così, il sorteggio olimpico che ha messo di fronte, al primo turno, l’italiana Carini all’algerina Khelif – che Iba aveva squalificato prima della finale dei Mondiali 2023, in maniera tutt’altro che trasparente (per motivi di riservatezza non sono mai stati resi noti né gli esiti né la tipologia del test fallito da Khelif) – si è rivelato la trappola perfetta nella quale far cadere il Cio al cospetto dell’opinione pubblica, una trappola alimentata, se non proprio generata, dalla disinformazione che in Italia ha preso piede e investito la politica, e che Iba sta sfruttando ora, spingendo sull’acceleratore, come dimostra la recente proposta di riconoscere a Carini, e alle altre atlete battute sul ring parigino da Khelif, un premio economico (complessivo e da dividere tra atleta, tecnici e federazione di appartenenza) di 100 mila dollari.

Los Angeles sì o no?

C’è ora da capire che effetto avrà tutto ciò su Los Angeles 2028. Come detto, il pugilato non è nel programma, e di sicuro il rapporto tossico tra Cio e Iba non si ricomporrà a breve, sempre che si ricomponga prima o poi. L’immagine della boxe olimpica (cioè formalmente quella dilettantistica, non del professionismo che ha altri problemi e altre contraddizioni, ma è per scelta cosa diversa dal pugilato olimpico) è al tappeto per ko tecnico, ma a questo punto un’uscita dal programma, per il Cio oggi sotto attacco, rischia paradossalmente di essere un autogol, considerando che comunque la noble art, con la sola eccezione di Stoccolma 1912, è presente ai Giochi sin da St. Louis 1904.

La scelta, per il Cio, in questo momento appare brutale, dal punto di vista dell’immagine proiettata, insomma nella forma più che nella sostanza: abbandonare, aprendo così un’autostrada alle recriminazioni dell’Iba, o rilanciare, rimandando così la prevista e voluta uscita dal programma olimpico. Tertium non datur. Ed è significativo che, in tutto questo, non si parli di pugilato, ma di altro.