Perché leggere questo articolo: “Storia popolare del calcio” di Valerio Moggia è un libro approfondito che ricorda il peso sociale dello sport più popolare al mondo. Pretesto per rivendicazioni politiche e collettive a ogni livello.
Nella storia dedl calcio ci sono i talenti, c’è la forza motrice di una passione globale diffusa a ogni latitudine, ci sono le leggende e ci sono i club storici. Ma ci sono anche infinite storie “popolari”, di legame tra il mondo del pallone e le grandi questioni dell’attualità di ogni epoca. Rivendicazioni sociali, lotta alle discriminazioni, emersione di minoranze dimenticate e sottovalutate, istanze politiche: di questa “storia popolare” del calcio è giusto parlare perché permette di mettere in fila i motivi per cui nell’era convulsa del Novecento e nel Duemila globalizzato il calcio, uno dei mezzi di comunicazione più comune tra i popoli, abbia travalicato il ruolo di semplice sport.
E proprio “Storia popolare del calcio” si intitola un saggio del giornalista Valerio Moggia, curatore del blog Pallonate in faccia, che presenta una serie di dinamiche capaci di attraversare, nella sua lunga e gloriosa storia, il mondo del calcio.
Popolo e dominanti nella storia del calcio
Moggia legge la storia del calcio attraverso il prisma di una grande dialettica. Da un lato, la tendenza delle élite di ogni Paese, a partire dal Regno Unito di metà Ottocento, di dominare il mondo del pallone. Dapprima in campo, con l’esaltazione del modello di gioco fondato su estri e duello individuale, e dopo lo sdoganamento del pallone in tutto il mondo con il controllo di club, leghe e federazioni internazionali. Dall’altro, l’uso fatto del calcio da parte delle classi emergenti e popolari come strumento di affermazione.
Sia che si parli dei minatori e degli operai inglesi e scozzesi che resero il calcio popolare e lo portarono in tutto il mondo sia che si faccia riferimento all’esplosione del calcio in aree come l’America Latina, ove permise l’affermazione sociale dei neri nei Paesi post-coloniali, il filo rosso è chiaro. Con Moggia si viaggia al fianco di Jimmy Hogan, il leggendario coach scozzese che portò il calcio nell’Europa danubiana, rendendolo popolare nell’Austria e nell’Ungheria di inizio Novecento. Si solca l’Oceano Atlantico per arrivare nell’Uruguay di un secolo fa, dove tramite il calcio la minoranza nera ricordò al piccolo Stato platense di esistere. E proprio un nero, José Leandro Andrade, fu la guida in campo della Celeste di Montevideo alle Olimpiadi 1924 e 1928 e ai Mondiali 1930, tornei vinti trionfalmente dall’Uruguay.
Il pallone nella storia e nella tragedia del Novecento
Tra i suoi eroi popolari Moggia ricorda Arpard Weisz, l’allenatore ebreo che vinse il primo scudetto italiano della Serie A a girone unico nel 1930 con l’Ambrosiana Inter per poi morire nell’inferno di Auschwitz nel 1944. Ricorda gli undici dell’Euskadi, la selezione dei migliori calciatori baschi che nel 1939 si iscrisse al campionato messicano esule dalla Spagna di Francisco Franco. Non dimentica gli “undici” dei calciatori algerini in Francia che tra il 1954 e il 1958 popolarizzarono con esibizioni la causa indipendentista del Paese. Rammenta la rivendicazione nazionalpopolare del “catenaccio” all’Italiana da parte di grandi autori come Pier Paolo Pasolini nell’Italia sviluppista e elitista della Ricostruzione.
Il calcio è un pretesto
In sostanza, Moggia costruisce un sistema narrativo in cui, sostanzialmente, il calcio è il pretesto per raccontare la grande storia. Una storia in cui i fenomeni sociali di massa possono e devono aver il giusto spazio. Vuoi per la loro capacità di trascinare istanze collettive e agglomerare masse, vuoi per il loro lascito nell’immaginario collettivo. Nella storia del rettangolo verde nel lungo secolo delle “idee assassine” c’è spazio per un calcio usato come arma di distrazione di massa nell’Italia fascista e nell’Argentina della giunta militare del “Mondiale della Vergogna”. C’è spazio per il calcio come moltiplicatore delle tensioni sociali nell’era finale della Jugoslavia post-Tito.
Ma c’è anche spazio per un calcio capace di ricordare, tramite l’ascesa di campioni come George Weah e Didier Drogba, dell’esistenza dei drammi di Paesi dimenticati come Liberia e Costa d’Avorio. O di portare in campo istanze collettive come il richiamo alla democrazia che il Corinthians di Socrates seppe organizzare nel Brasile della dittatura militare negli Anni Settanta. “Chi parla solo di calcio, non sa nulla di calcio”, ha detto José Mourinho. Il libro di Moggia serve a capire quanto questo assunto sia importante. Il calcio è un pretesto. Dietro c’è la grande storia. Che rotola parallelamente ai palloni calciati nei rettangoli verdi a ogni latitudine.