Perché leggere questo articolo? La morte di Gigi Riva priva l’Italia del più grande marcatore della storia della Nazionale. E la Sardegna di un simbolo non solo sportivo. Vediamo perché.
La descrizione migliore della Sardegna, forse, l’ha data David Herbert Lawrence: “Incantevole spazio intorno e distanza da viaggiare, nulla di finito, nulla di definitivo. È come la libertà stessa”. Lo scrittore britannico fu conquistato, visitandola, dalla selvaggia bellezza dell’isola dei nuraghi. Un luogo “fuori dal tempo e dalla storia” il cui Novecento si è confuso con la storia degli uomini che l’hanno ricordata come parte d’Italia. E chi più di Gigi Riva, il “campionissimo” dello storico scudetto del Cagliari, rappresenta lo spirito sardo del secolo passato?
Gigi Riva e la Sardegna, un legame profondo
Il triste spettacolo dei fischi del pubblico arabo di Riad all’annuncio della morte di “Rombo di Tuono” nell’intervallo della finale di Supercoppa italiana tra Napoli e Inter ha aggiunto una nota di malinconia e tristezza alla commemorazione del miglior marcatore della storia della Nazionale italiana. Il cui peso come grande centravanti è indiscusso, ma è financo secondario rispetto al vero impatto che la figura di Riva ha avuto per la crescita dell’autocoscienza sarda. L’antica terra porto d’approdo per eccellenza, commistione di fenici, greci, romani, aragonesi e una lunga serie di altri dominatori, l’isola dei nuraghi che aveva volto le spalle al mare per diventare terra di pastori, la terra presentata come abitata solo da capre e briganti nella ruvida retorica narrativa dell’Italia postbellica con lo scudetto del Cagliari del 1969-1970 ricordò alla Repubblica di esistere.
E, cosa più importante, lo fece col contributo decisivo di un sardo d’adozione. Nella memorabile Odissea moderna dei sardi, Passavamo sulla terra leggeri, la storia dell’isola viene fatta iniziare con un naufragio di un’antica stirpe di “sacerdoti danzanti” dall’autore, Sergio Atzeni. Uomo profondo e narratore dell’epopea dei sardi tra domus de janas, nuraghi e antichi giudicati, Atzeni, morto nel 1996 travolto da un’onda presso l’Isola di San Pietro, ha raccontato di un’isola apparentemente inospitale ma capace di accogliere e superare le differenze. Essere sardi significava, innanzitutto, sposare un’identità plurale. Terragna e marittima; antica nello spirito e dedita alla sussistenza nella quotidianità; mediterranea in quanto italiana, ma non viceversa; terra di religiosità antiche e plurali, ma in cui c’è un unicuum di un culto di “San Lucifero”, ossimoro per definizione.
“Rombo di Tuono”, una vita da romanzo popolare
Gigi Riva da questa terra è stato accolto. Negli anni, si è fatto convintamente sardo, nelle parole nei fatti. E lo ha fatto proveniendo da Leggiuno, luogo ameno sulle sponde varesine del Lago Maggiore. Lo ha fatto approdando, quasi diciannovenne, nel 1963 a Cagliari, l’antica Karalis che Atzeni avrebbe narrato, per far scoprire all’Italia l’isola grazie a un pallone. E la metafora del passaggio è stata ripresa dall‘Unione Sarda ricordando Riva in occasione della sua scomparsa: “Siamo la somma delle persone che incontriamo, si sa. Ma mai, come con Gigi, le vite dei sardi si sono avvolte attorno a un’unica figura, facendosi trascinare dai suoi eroici successi e le sue umane debolezze, viaggiando tra i suoi luoghi silenziosi e i suoi giorni chiassosi. Li hanno resi loro. Lui, in cambio, ha cambiato la Sardegna per sempre. Semplicemente passando“.
Massimiliano Castellani ha definito su Avvenire la parabola di Gigi Riva “un vero romanzo popolare che comincia con la morte del padre che stoppò inesorabilmente la sua giovinezza e che l’ha costretto ad imparare in fretta l’arte di arrangiarsi”.
Riva e l’abbraccio della Sardegna
Castellani prosegue ricordando che “in un mondo di infanti viziati, giova ricordare che il fuoriclasse Gigi Riva ha cominciato da “calciatore operaio”, e perciò, non dimentica mai le sue umili origini e quella corsa sfrenata per staccare il dolore della perdita e l’umiliazione della povertà”.
Non poteva esserci figura migliore per specchiarsi in una terra in cui la povertà non coincide con la miseria ma con l’arte di sopravvivere con ciò che si è, faticosamente, conquistato a un territorio strutturalmente ostile. Riva ha sempre ricordato l’abbraccio caldo della Sardegna come il motivo scatenante che lo ha spinto a dire molti “No” alle richieste di trasferimento che arrivavano dalle squadre del Nord. Più sardo dei sardi, in tempi di un’Italia che usciva dal boom economico e dalle sue contraddizioni ha mostrato, con scelte dirette, l’esistenza di un Paese oltre i limiti dei mondi industriali del Nord.
Lo spirito del tempo dei sardi
Bella e maledetta la Sardegna nel suo dualismo, altrettanto bella e maledetta la carriera di Riva, arrivato in pochi mesi dall’apoteosi dello scudetto e della finale mondiale del 1970 persa col Brasile di Pelé all’inizio di un lungo ciclo di infortuni. Riva ne ha fatto la sua casa. Ha scelto la periferia per essere al centro. A suo modo, è “passato leggero” muovendosi sui campi erbosi della terra cantata da Atzeni.
Ha a colpi di gol e scelte personali in controtendenza con lo sport-business acquisito quella “sardità” che di fatto è è un sentire imponderabile, un diritto non acquisito e, scriveva nel 2019 la Nuova Sardegna, “non appartiene solo a chi in Sardegna ci è nato ma anche a chi sceglie l’isola come “patria”. Non si descrive a parole, non attiene a ragioni logiche: è solo questione di sintonie”. La fenomenologia della Sardegna di Gigi Riva è stata legata al fatto che il pallone ha funto da strumento emancipatore. Un analista di materie geopolitiche come Alessandro Aresu, nel 2016, su Limes commentando i portati della cultura popolare della sua nativa Sardegna bene lo ha sintetizzato: “Per Hegel lo spirito del mondo si è incarnato in Napoleone a Jena. Per i sardi lo spirito del mondo si è incarnato in Gigi Riva”. E lo spirito del mondo oggigiorno è radicalmente mutato.
L’ultima epica sarda
La beffa del destino ha voluto Riva ricordato nel tempio di un calcio che è l’antitesi di quello che ha incarnato: un freddo stadio arabo, lontano migliaia di chilometri e due fusi orario dall’Italia, di fronte a un pubblico di follower, non tifosi, senza identità sportiva. O forse senza identità tout court. Da cui quei fischi deplorevoli da parte di chi vedeva la commemorazione di un campione defunto come un blocco allo show must go on in attesa dell’inizio del secondo tempo di Napoli-Inter.
La realtà è che Gigi Riva ha permesso a un’isola intera di poter dire, di fronte al resto d’Italia, la parola “sardo” con maggiore orgoglio. E, in un certo senso, di italianizzare una terra spesso considerata avulsa dal territorio metropolitano dall’Unità al secondo dopoguerra.
Non a caso, fatto raro per la scomparsa di un big della cultura “pop”, Sergio Mattarella ha speso un ricordo personale tramite i canali del Quirinale per un campione-simbolo del Paese, non solo del calcio. E per centinaia di migliaia di sardi e i loro figli la storia di riscatto associata al Cagliari di Riva è, in maniera simile a quanto avviene nel mondo latinoamericano, una forma contemporanea di epica narrativa. La stessa che a lungo ha plasmato una terra i cui abitanti sono “passati leggeri” per secoli. Unendosi a consolidare una cultura antica per cui nessuno, da chi veniva dai flutti del mare millenni fa a chi vi giungeva, in controtendenza, in cerca di fortuna quando vi sbarcava Riva era mai considerato a prescindere straniero.