L’incidente storico è stato evitato in extremis, ma i Giochi Paralimpici invernali che scattano oggi con la cerimonia inaugurale nello stadio nazionale di Pechino per chiudersi il prossimo 13 marzo saranno fortemente condizionati dai venti di guerra. Alla fine gli atleti russi e bielorussi (una doppia delegazione da 83 persone in tutto) sono stati messi alla porta. Indesiderati anche se l’ICP (Comitato Paralimpico Internazionale) ha cercato fino all’ultimo di non cancellare la loro presenza anche a costo di remare controcorrente rispetto al resto del mondo dello sport.
Il risultato è stato paradossale: mentre il CIO dava a tutti la raccomandazione di escludere Russia e Bielorussia da qualsiasi competizione internazionale, il comitato gemello ignorava il significato simbolico e pratico della prescrizione accettando le due squadre seppure con formula neutrale.
Paralimpiadi, precipitosa marcia indietro su Russia e Bielorussia
Come se gareggiare senza riferimenti alla propria nazionale, sotto il cappello dello stesso ICP, senza inno e bandiera e senza comparire nel medagliere potesse bastare a dimenticare per una settimana le immagini provenienti da Kiev e dalle città ucraine sotto assedio. Impossibile e così è stato. Il presidente del Comitato Andrew Parsons è stato costretto a una precipitosa marcia indietro notturna e, non senza imbarazzo, ha negato a russi e bielorussi l’iscrizione ai Giochi accettata solo qualche ora prima.
Ad obbligarlo sono stati tutti gli altri. Le delegazioni pronte ad andarsene per non condividere le competizioni con le due nazioni considerate reiette si sono moltiplicate con il passare delle ore. Una vera e propria rivolta che ha messo l’IPC davanti a un bivio: tenere duro, col rischio di vedere tutti gli altri andarsene da Pechino svuotando di fatto il significato delle Paralimpiadi e mettendone a rischio la stessa sopravvivenza, oppure cacciare Russia e Bielorussia. Non c’era scelta, ma con un minimo di lungimiranza era chiaro già prima che non sarebbe stata giustificata una presa di posizione contraria al sentimento della stragrande maggioranza dello sport mondiale.
Tutti compatti (salvo rarissime eccezioni) di fronte alla crisi ucraina
La crisi ucraina sta compattando tutti. Le eccezioni sono rarissime e spesso dettate da questioni di potere geopolitico dentro le federazioni. Qualcuno ci ha messo troppo a reagire, come nel caso della scherma. Altri non lo hanno ancora fatto (nuoto) e in alcune situazione si va avanti giocando sull’ambiguità come nel tennis, dove i russi non potranno fare la Coppa Davis ma continuano a frequentare i tornei ATP e WTA seppure senza bandiera nazionale. Del resto anche il calcio, che ha messo al bando la Russia con rapidità così come fece nel 1992 con la Jugoslavia agli Europei – entrò la Danimarca che poi a sorpresa vinse il titolo – non ha impedito ai giocatori di continuare a offrire le proprie prestazioni ai rispettivi club. E lo stesso succede nel basket che invece, a livello di competizioni, ha spazzato via la Russia.
L’IPC insomma aveva tutti gli strumenti per decidere bene e prima. L’idea di non escludere russi e bielorussi, argomentata nobilmente come conseguenza della necessità di mantenere lo sport apolitico e fuori dalle questioni belliche – non ha retto difronte all’imbarbarimento del conflitto, alle immagini provenienti dall’Ucraina e al rifiuto degli atleti di girarsi dall’altra parte. I massimi dirigenti ne hanno preso atto così come accaduto anche in Formula Uno (Vettel e i piloti hanno annunciato il loro personale boicottaggio prima che venisse cancellato il GP di Sochi), pallavolo e quasi ovunque. Una lezione da mandare a memoria per il futuro.