Mentre la Premier League è pronta a riaccogliere i tifosi negli stadi, fino a 4.000 spettatori a partire dal 2 dicembre con modulazioni differenti a seconda dell’incidenza del contagio nelle diverse aree del Paese, l’Italia è ancora ferma alle restrizioni totali che stanno mettendo in ginocchio tutto il mondo dello sport. Sembra di tornare alla scorsa primavera, quando il pallone e i suoi fratelli minori venivano trattati dal Governo come la cosa più importante tra quelle inutili e, dunque, chiusi per decreto. Eppure i danni che l’intero ecosistema sportiva sta sopportando sono drammatici. Il calcio iper professionistico della Serie A conta perdite per 600 milioni di euro nel solo 2020, destinati a moltiplicarsi da gennaio, mentre il Coni stima in un ribasso dello 0,2% dell’impatto sul Pil nazionale il lockdown imposto allo sport. I ministri competenti farebbero bene a dare un’occhiata a cosa accade all’estero.
Ad esempio nella ricchissima NBA, la mecca del basket statunitense e mondiale, dove ritengono l’esperienza della bolla che ha consentito la chiusura della scorsa stagione praticamente irripetibile. E siccome “un anno senza tifosi è sostenibile, ma andare avanti così no” in California i Golden State Warrios hanno deciso di provare a fare da soli. La franchigia ha presentato alle autorità locali un piano che prevede di pagare di tasca propria i test Covid per tutta la stagione ai tifosi da far entrare nell’arena purché arrivi il via libera al 50% della capienza. Un progetto da 30 milioni di dollari che sono una cifra enorme ma evidentemente ritenuta un male accettabile per evitare le porte sbarrate. I Warriors allestirebbero presidi esterni al palazzetto dove effettuare i tamponi rapidi impegnandosi poi a far rispettare tutte le misure di distanziamento e protezione dentro la struttura. La stima è che senza pubblico la perdita di ricavi si avvicinerebbe ai 400 milioni di dollari. E se anche lo sport italiano di vertice cominciasse a ragionare così?