Il ritiro della Roma dalla quotazione di Piazza Affari, arrivato a due anni e otto mesi dall’avvio dell’era Friedkin, segna la realizzazione di uno dei punti centrali del piano del magnate statunitense per il rilancio del club della Capitale. Friedkin, che fin qui ha investito (spesso a fondo perduto) 650 milioni di euro nella Roma, tra acquisizione, aumenti di capitale e Opa, aveva in testa un modello di gestione societario più snello rispetto a quello più rigido dettato dalle regole di Borsa sotto l’egida della Consob. Per riuscirci ha dovuto convincere i tifosi proprietari delle azioni rimaste sul mercato mettendo mano al portafoglio e spendendo in tutto 38 milioni per ritirare le cedole restanti: flottante praticamente fermo, quasi più una questione di cuore che di affare. E’ per questo che l’operazione-delisting è stata complessa e per arrivare a dama i Friedkin hanno dovuto garantire ai soci di minoranza ‘uscenti’ l’ingresso in un club esclusivo in cui potranno comunque godere di un rapporto privilegiato con la vita della società del loro cuore.
Dal punto di vista finanziario è difficile che qualcuno ci abbia guadagnato qualcosa
E’ l’unica cosa rimasta in mano ai risparmiatori che ancora sostenevano la Roma in Borsa. Dal punto di vista finanziario è difficile che qualcuno ci abbia guadagnato qualcosa, se non nelle operazioni di trading lungo il ventennio della quotazione che data 23 maggio 2000, il giorno in cui l’allora presidente Franco Sensi brindò all’ingresso a Piazza Affari. Era l’epoca delle spese pazze, dei fatturati gonfiati dai diritti tv in perenne crescita e dall’illusione che dal mercato sarebbero potute arrivare risorse aggiuntive da girare sul (calcio)mercato. Non è andata così. Per paradosso, se qualcuno degli investitori del maggio 2000 si fosse tenuto le azioni fino al delisting avrebbe perso il 95% del valore del capitale investito: da 5,50 euro a 0,34. Difficile che sia accaduto, ma la parabola della Roma, le difficoltà della Lazio e le turbolenze della Juventus altro non fanno che confermare come calcio e Borsa non sia un binomio vincente.
Il calcio risulta essere un business in perenne disequilibrio
I bianconeri della famiglia Agnelli, ad esempio, hanno vissuto negli ultimi anni molti più bassi che alti e gli azionisti di minoranza si sono visti chiamati a sottoscrivere (o a diluire il valore delle proprie quote) aumenti di capitale da 700 milioni di euro dal 2019 al 2022. Anche negli esempi più virtuosi – la Juventus lo è stata per un lungo periodo – il calcio risulta essere un business in perenne disequilibrio, abituato a chiudere bilanci in rosso, non distribuire dividendi e richiedere al contrario continue immissioni di capitale.
Oggi i grandi club quotati si contano a malapena sulle dita di due mani
La consolazione è che non accade così solo in Italia. Dopo l’iniziale euforia degli anni Duemila anche nella ricca Inghilterra molti hanno fatto passi indietro. Chi rimane collocato nelle piazze affari di mezzo mondo (spesso negli States) lo fa perché legato a proprietà che hanno riferimenti diretti al mondo della finanza come nel caso del Manchester United. Quasi tutti, però, col passare del tempo hanno preferito mettere fine all’esperienza cosicché oggi i grandi club quotati si contano a malapena sulle dita di due mani: Lione, Borussia Dortmund (dove la proprietà è però dei tifosi come accade per regolamento della Bundesliga), Porto, Ajax e qualche altra eccezione. E chi progettava la quotazione ha cambiato idea. Anche in Italia e non solo perché per presentarsi serve avere i conti in ordine, esperienza che pochissimi possono raccontare. La grande bolla, insomma, si è sgonfiata e non sarà rimpianta. Troppo aleatorio investire da risparmiatori su un business volatile come il calcio, legato al singolo risultato e nel quale le aziende faticano ad avere asset patrimoniali (non solo gli stadi di proprietà) che rendano solido il loro profilo. La Roma che saluta Piazza Affari potrebbe non essere la sola ad abbandonare.