2 dicembre 1987. Gli Utah Jazz sfidano sul loro campo i Chicago Bulls di Michael Jordan. Durante la partita MJ schiaccia in testa al play avversario, John Stockton (1 metro e 85). Un tifoso in prima fila urla: “Hey Michael, prenditela con qualcuno della tua stazza”. L’azione successiva Jordan prende il pallone, salta e schiaccia, questa volta in testa al pivot avversario, Mel Turpin, 2 metri e 08. Tornando in difesa cerca il tifoso con lo sguardo e gli chiede: “Era grosso abbastanza?”
Per lo sport Usa è questo il più classico esempio di “trash talking”, quella sorta di dialogo che avviene sul campo tra alcuni sportivi. In Italia se ne è parlato in questi giorni in merito alla rissa verbale tra Lukaku e Ibrahimovic. In realtà non esiste esempio peggiore. Il trash talking infatti è qualcosa di culturale, nato ed ereditato sui playground americani dove lo sport è molto di più: è musica, è vita, è lotta sociale. Qui, commentare un’azione è quasi obbligatorio, sfidare un avversario anche a parole quasi automatico, per finire con una sonora risata. Il tutto però entro certi limiti. Il trash talking infatti non è mai insulto fine a se stesso, volgare, offensivo, violento. È quasi satira sportiva.
Ci sono storie di atleti che hanno fatto del trash talking una vera e propria forma d’arte. Nel mondo NBA indimenticabile Gary Payton, play di Seattle, uno che proprio non stava zitto mai e poi mai. Il trash talking poi ha regalato espressioni ormai di uso comune: celebre il “ball don’t lie” (il pallone non mente) che Rasheed Wallace gridava ad ogni tiro libero sbagliato dopo un fallo secondo lui dubbio. Oppure il “In your face” (in faccia a te) di Tim Hardaway dopo un epico crossover contro Charles Barkley e che oggi ha superato i confini degli Usa e del basket.
Tutto accettato dagli arbitri ma con certi limiti. Per un fischietto Usa davanti alla rissa Ibra-Lukaku non ci sarebbero stati dubbi: espulsione ed una bella, lunga, squalifica.
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