Prima ancora della questione inginocchiamento (si fa o non si fa? Si è razzisti se non lo si fa? E demagoghi se invece si aderisce?), l’Italia dell’estate pallonara rischia di affogare nell’ormai stucchevole polemica che riguarda la nazionale italiana e l’inno di Mameli. Roba che si ripete ogni due anni, seguendo il calendario dei grandi eventi calcistici, e che riguarda solo la nazionale del pallone visto che nessuno si è mai sognato di discutere le vigorose sbracciate dei rugbisti o le lacrime da podio alle Olimpiadi.
No. Quando c’è l’Italia del calcio sembra non andare mai bene nulla. Non va bene se gli azzurri stanno zitti, socchiudono appena le labbra, vanno fuori tempo, non conoscono a memoria il testo o si guardano intorno nel momento sacro della sua esecuzione. E passi, visto che in milioni vorremmo essere al loro posto a rappresentare il Bel Paese con gli occhi di tutti piantati addosso anche e soprattutto in quel minuto lì.
Nazionale italiana e inno di Mameli, ora serve l’accademia canora?
Ma adesso che la lezione è stata mandata a memoria, così come il testo scritto da Goffedo Mameli nel 1847 che per la cronaca si chiama ‘Il canto degli italiani’ e dal 1946 è l’inno d’Italia ma solo “provvisoriamente”, c’è chi alza il ditino e protesta ugualmente. Non piace che gli azzurri lo cantino con trasporto, quasi urlandolo, magari andando fuori tempo e pure un po’ stonati. Come se per fare un Europeo o un Mondiale si dovesse prima passare da un’accademia canora e non servisse di più, invece, essere dotati di buon palleggio e formidabile senso del gol.
C’è chi si è spinto oltre, tornando a contestare anche il mitologico ‘Poporopo’ iniziale che – dicono gli esteti dell’inno interpretato alla perfezione – non andrebbe accompagnato con la voce (sia mai!), ma al massimo onorato in silenzio con gli occhi semi chiusi a simulare massima concentrazione.
Nazionale italiana e inno di Mameli col passaporto in mano? Il caso Jorginho
E c’è chi si è messo a discutere la legittimità di canto passaporto in mano. Facendo scempio di un passato anche illustre e vincente, perché non sempre i cosiddetti oriundi hanno portato male alla nazionale. Anzi. Non si capisce, dunque, perché Jorge Luiz Frello Filho, meglio conosciuto come Jorginho, nato a Imbituba il 20 dicembre 1991, non dovrebbe poter intonare il canto degli italiani insieme a tutti gli altri.
Certo, non sfugge a nessuno che Imbituba non sia sugli Appennini o in mezzo alla Val Padana ma nello Stato di Santa Catarina, nel Turabao in Brasile. Però da anni Jorginho ha famiglia di origini venete e dal 2012 ha scelto di sposare l’azzurro e che gran parte della sua vita e dei suoi affetti lo tengano ancorati qui piuttosto che in Brasile. Dunque saranno affari suoi, semmai dovremmo essere lieti di vederlo cantare con trasporto Mameli.
Il sospetto che in realtà non ce ne freghi molto, di lui come delle stonature di altri. Semplicemente siamo un popolo di inguaribili brontoloni, autentici umarell da divano in cerca di passatempo (la maggior parte) e scampoli di visibilità (alcuni).