Quando nell’ultima assemblea elettiva della Lega Serie A in 19 hanno votato scheda bianca e uno solo ha scritto il nome di Carlo Bonomi, già presidente della Confindustria vera e candidato da non bruciare per quella del pallone, tutti hanno pensato a lui. Del resto, raccontano i presenti, Aurelio De Laurentiis era stato l’unico a dotarsi di penna prima di procedere al voto e poi i precedenti andavano tutti nella stessa direzione. Il presidente del Napoli, l’uomo (quasi) sempre contro tutto e contro tutti, accentratore di scelte e potersi nel suo club – gestito, bisogna dire la verità, così bene da passare dalla Serie C all’Europa – col sospetto di sentirsi stretto nella giacca di semplice azionista della Lega Serie A. Il consesso descritto dall’ex presidente Gaetano Micchiché, fatto fuori a colpi di cavilli e sgambetti dopo sedici mesi di mal di testa e maratone assembleari per provare a dare una guida manageriale al calcio italiano. Quel consesso che spinse Andrea Agnelli, nel momento di tensione massima in cui si pensava di imbarcare i fondi anche per cooptare dirigenti da fuori, a pronunciare una frase diventata epitaffio: “Se in Lega fossimo normodotati non avremmo bisogno di terzi per sviluppare il nostro business”.
Il ruolo di semplice azionista a uno come ADL deve andare stretto, ma il passo successivo non è mai arrivato. Anche perché in pochi sono riusciti a riconoscersi nelle sue ricette per rendere più moderno e finalmente sostenibile il pallone. I più lamentano una certa incapacità nello stare dietro alla verbosità del produttore di cui si raccontano anche spericolati cambi di opinione tra la sera e la mattina non solo pubblici, ma anche privati.
De Laurentiis che attacca Platini, allora dominus della UEFA e che se la prende con la FIFA. Accusa il primo di essere un “monarca” e se la prende con gli arbitri e con l’Europa League (che non gli piace) definita “un teatrino di marionette”. E sull’idea, per la quale Infantino si sta battendo, del Mondiale biennale va giù duro: “Un’altra supercazzata del secolo… Infantino è una brava persona però lì ci sono degli interessi nati illo tempore ad opera del Qatar”. Che si infuria per un sorteggio di calendario andato male, salendo sul primo motorino passato in zona, e se ne va. Che vorrebbe il canale della Lega, vendere meglio i diritti tv all’estero ed esserci presenti come fanno altri campionati e poi contesta i costi per l’apertura degli uffici in terra straniera. Insomma, tutto e il contrario di tutto.
Aurelio De Laurentiis, il visionario
Le sue esternazioni vengono riclassificate da chi gli sta intorno come le uscite di un visionario, che per valorizzare il mondo in cui ha investito e che ha reso ormai il suo core business vorrebbe rovesciare tutto e ricominciare daccapo. Nel palazzo in cui si decidono i destini della Serie A (format, diritti tv, sviluppo) non è mai stato però centrale e la sensazione è che non riuscirà ad esserlo nemmeno a questo giro. Non come Lotito, l’altro grande tessitore che per anni ha governato tutto in prima o seconda fila e che adesso sta cercando di muovere i suoi fili.
La scheda con il nome di Carlo Bonomi, sia che l’abbia messa lui nell’urna sia che sia stato qualcun altro, non è servita a bruciarne la candidatura e nemmeno a scalfirla. Anzi. E’ stata liquidata con un’alzata di spalle e lasciato il numero uno di Confindustria nella short list dei manager in corsa. Almeno sul profilo, però, ADL ha avuto ragione quando si era prospettata l’idea di Pierferdinando Casini, appena deluso dallo stop per il Quirinale: “Ma quale politico, serve un tecnico” aveva tuonato De Laurentiis e a occhio pare essere stato accontentato. Ha anche aggiunto: “Il presidente non è uno che deve comandare, deve rappresentare gli interessi e le decisioni di venti società”. Che è quello che ha disperatamente cercato di fare per anni chi si è alternato su quella poltrona. Senza successo, visto che il calcio italiano continua a macinare debiti e perdite e a bruciare visioni e progetti uno dopo l’altro.