Perché leggere questo articolo? Cosa spinge il dibattito sul futuro della Serie A? Interessi competitivi o economici? Proviamo a fare chiarezza sul voto di questa settimana all’Assemblea della Lega.
E’ finita 16 voti contro 4, una maggioranza schiacciante, e così lunedì scorso, il 12 febbraio, l’assemblea della Lega di Serie A ha bocciato la proposta di riduzione dell’organico della massima divisione a 18 squadre, votata da Inter, Juventus, Milan e Roma, confermando l’attuale format a 20. Scelta apparentemente netta, ma in realtà schermaglie e giochetti sono solo all’inizio, perché il calcio italiano ha bisogno di riforme – e, per dare un senso e una credibilità al suo secondo mandato, ne ha bisogno anche il presidente della Figc Gabriele Gravina – e i prossimi mesi, tra spinte endogene ed esogene (i postumi della sentenza della Corte di Giustizia Europea sul caso Superlega, con le mosse di alcuni stakeholder), le componenti che portano interessi diversi dovranno trovare una sintesi o pensare ad altre soluzioni più drastiche.
Prime schermaglie
Intanto, su spinta della Lega Dilettanti e del suo presidente, l’eterno Giancarlo Abete, e in parte quale conseguenza della decisione della Lega di A, la Figc ha rinviato a data da destinarsi l’assemblea straordinaria, inizialmente convocata per l’11 marzo, che punta a modificare lo statuto, rimuovendo il cosiddetto diritto di intesa, norma che permette alle leghe di decidere il formato dei rispettivi campionati anche nel caso in cui il 75% del Consiglio federale voti una modifica. In sostanza, si tratta del potere di veto che ogni componente del calcio italiano ha sulle modifiche che la riguardano decise dalla Figc, ivi compresi i cambi di format.
Più Europa, più soldi
La creazione della Conference League – che si avvia al termine del suo primo ciclo triennale – e i prossimi format di Champions League ed Europa League in ambito Uefa, nonché il Mondiale per club (Fifa, 2025) e le ipotesi di nuove competizioni internazionali rese possibili dalla Corte di Giustizia Europea raccontano una cosa soprattutto: il futuro del calcio, per i club più importanti, è nell’aumento delle gare internazionali, aspetto che finirà inevitabilmente per incidere sui bilanci e sulla programmazione stagionale in misura sempre maggiore, soprattutto in campionati che, come la Serie A, hanno perso posizioni nell’immagine proiettata a livello globale.
Anche per questo la A ha bisogno di un maggiore equilibrio competitivo (attenzione: non significa che ogni anno il campionato debba essere vinto da una squadra diversa, questo è lo specchietto per le allodole, ma diminuire il divario tra i club egemoni e le comparse), e il progetto delle grandi, sicuramente egoistico, per eterogenesi dei fini rischia di migliorare l’intero prodotto: una A a 18 squadre implicherebbe la riduzione di almeno una cinquantina di calciatori in categoria, circa il 10%, e la riduzione degli impegni a sua volta consentirebbe anche ai club di fascia medio-bassa di tesserare meno atleti, generando benefici nei costi della rosa, da anni il punto dolente per le società italiane.
Serie A o “Superleghina”?
Urbano Cairo, attraverso il megafono propagandistico della Gazzetta dello Sport, ha definito spregiativamente la riduzione come “una superleghina” decisa dai grandi club, ben sapendo in realtà che il mantenimento dell’attuale format, votato dalle altre 16 tra cui il Torino, risponde alle medesime logiche di massimizzazione dei propri profitti, anche considerando che, tra i desiderata degli altri club, c’è una diminuzione del turnover tra A e B, dunque meno retrocessioni, insomma un diverso tipo di blindatura.
Ridurre i club significherebbe però anche offrire meno gare ai broadcaster: un aspetto da tenere in considerazione, ma non necessariamente dirimente, considerando i bassi numeri di abbonamenti e visione fatti registrare dai tifosi di diversi club e il senso di riempimento che certe partite danno all’interno di un campionato non esattamente caratterizzato da un eccelso livello di spettacolo, dentro e fuori dal campo, per motivi tecnici ma anche strutturali e di fanbase.
Una Lega Serie A sempre più blindata
Nell’assemblea di A il documento sulle modifiche al torneo prevede anche l’introduzione del salary cap, contratti massimi non più di cinque ma di otto anni per i calciatori e una nuova formula per la Coppa Italia (che proprio dalla Lega di A è organizzata), ma anche l’abolizione del prelievo forzoso attuato dai club di B e l’invito a una riduzione dei club di C.
Un ragionamento, esso stesso, da lega a parte e, se da un lato non v’è dubbio che la piramide calcistica professionistica italiana non è sostenibile così com’è, è vero altresì che alla A di ciò in fondo non interessa, perché l’obiettivo è sempre maggiore autonomia, ben più di quella già concessa alla Lega A da Gravina, al punto che, fra le mosse dei prossimi mesi, non è da escludere un ulteriore strappo da parte di quest’ultima che ancora maggiormente la allontani dalle altre componenti.
Allo stesso modo, il 16 a 4 della votazione di lunedì scorso non deve trarre in inganno: quando in ballo gli interessi delle parti si scontrano, il quadro delle alleanze e dei possibili tradimenti diventa fluido, ciò che vale a febbraio può non valere più ad aprile, e del resto la posizione di alcuni club di media fascia appare piuttosto volatile. Come quello europeo, il calcio italiano è destinato a cambiare e, se c’è un aspetto certo, è che le spinte al cambiamento da parte delle varie componenti sono tutt’altro che omogenee.