Perché questo articolo potrebbe interessarti? Biodiversità: le specie aliene invasive sono quelle specie animali (ma non solo) che, introdotte dall’essere umano in un ambiente diverso da quello originario, diventano una minaccia per l’ecosistema. Come ci insegnano alcuni casi storici, i danni spesso sono irreparabili. In Italia, dove possibile, si sta cercando di contenerle.
A metà Ottocento il proprietario terriero Thomas Austin, appassionato di caccia, importò 24mila conigli selvatici europei nelle campagne australiane. Gli animali si adattarono fin troppo bene al nuovo ambiente. Nel 1950 se ne contavano nel Paese circa 600 milioni in competizione con il bestiame e le specie autoctone per le scorte di acqua e cibo. Per cercare di frenare la disastrosa avanzata, il governo australiano autorizzò a quel punto l’introduzione di un virus letale per i conigli. Il quale causò, almeno nei primi anni, un effettivo ridimensionamento della popolazione.
Nell’isola di Stephens, a sud della Nuova Zelanda, non ci fu il tempo per provare a risolvere il danno. Qui nel 1894 il guardiano del faro e altre famiglie residenti importarono dei gatti. I felini in breve tempo provocarono l’estinzione totale dello scricciolo di Stephens Island, un uccellino incapace di volare endemico di questa piccola terra emersa. I conigli selvatici in Australia e i gatti di Stephens Island sono due esempi, storicamente fra i più noti, di specie aliene dannose.
Biodiversità, cosa sono le specie aliene (e quando sono un problema)
Il termine per la maggior parte delle persone richiama forse la vita extraterrestre. Ma in realtà l’espressione specie aliene, specie esotiche o specie alloctone si riferisce a tutte quelle specie (animali o vegetali; grandi, piccole o microscopiche) presenti in un luogo diverso dal loro ambiente naturale originario e lì arrivate a causa dall’essere umano. Non è solo un problema dell’Ottocento. E’ accaduto anche in tempi recenti.
Attualmente le specie aliene registrate in Europa sono dodicimila, di cui il 10-15% è diventato invasivo: vale a dire, ha trovato condizioni favorevoli per proliferare meglio o più delle specie autoctone. Causando così danni a volte irreversibili all’ambiente, alla biodiversità, all’economia e alla salute pubblica. In molti casi l’arrivo delle specie aliene è stato voluto. Si pensi ai coregoni che tanta importanza hanno per le comunità rivierasche e la ristorazione intorno ai grandi laghi italiani. Oppure alla nutria, introdotta in Italia come animale da pelliccia. Ma oggi assai problematica perché danneggia coltivazioni e canali, pregiudica l’equilibrio delle zone umide. E che può rappresentare un vettore di agenti patogeni pericolosi anche per l’essere umano. Altre volte, invece, l’introduzione è stata accidentale.
“È accaduto ad esempio con la Dreissena polymorpha. Questo è un piccolo mollusco comparso negli Stati Uniti o a sud delle Alpi perché era presente allo stadio larvale nelle acque di sentina delle navi che dall’Europa arrivavano in Nord America, nell’acqua presente nei motori marini oppure sul fondo delle imbarcazioni dei turisti provenienti d’Oltralpe”, spiega Pietro Volta, ricercatore all’Istituto di Ricerca sulle Acque del Cnr e coordinatore del progetto Life Predator che punta al contrasto e alla gestione del pesce siluro, specie aliena invasiva in molti laghi d’Italia ed Europa.
Biodiversità, i danni delle specie aliene invasive
Non tutte le specie aliene diventano invasive. Ma quando accade il loro impatto può essere significativo e molto negativo. “In alcuni casi bastano pochi mesi. In altri la presenza di una specie esotica può rimanere circoscritta e sporadica per dieci o vent’anni e poi di colpo invadere tutti gli spazi e gli habitat disponibili”, spiega l’esperto. “I danni più grandi sono quelli sulle specie autoctone simili dal punto di vista ecologico, che possono scomparire del tutto oppure ridursi”. Uno dei meccanismi più comuni con cui ciò avviene è la predazione diretta oppure la competizione ad armi impari per lo stesso habitat. I “nostri” molluschi d’acqua dolce, ad esempio, hanno subìto l’invasione della Corbicula fluminea, una piccola vongola asiatica che in breve tempo ha colonizzato fiumi e laghi occupando quasi tutto il substrato disponibile. «Altri meccanismi sono più sottili. Possono verificarsi fenomeni di introgressione genetica e ibridazione, che comportano la perdita delle caratteristiche genetiche della specie nativa”.
L’esempio delle trote nel Nord Italia
Un esempio che può essere citato è quello delle trote: in Italia le specie tipiche, come la trota marmorata nel Nord Italia o la trota mediterranea nell’area peninsulare, hanno gradualmente perso l’identità genetica a causa dell’ibridazione con altre specie di trote introdotte per supportare la pesca. Questo fenomeno negativo non è evidente ai più, perché le caratteristiche genetiche non sono visibili a occhio nudo, ma è una delle principali cause di riduzione della biodiversità dei salmonidi italiani», chiarisce Volta.
Quando parliamo di biodiversità, non dobbiamo pensare a qualcosa di distante, che non ci riguarda direttamente. La complessa e vasta interconnessione di tutte le specie, ciascuna delle quali ricopre un ruolo nell’ecosistema, è un valore di per sé e una straordinaria ricchezza naturale e culturale. Ma anche una garanzia di risorse e di maggiore resilienza e produttività dell’ambiente. Ecco perché, per preservarla, è fondamentale e urgente (anche) gestire le specie aliene e quelle invasive in particolare. E soprattutto è importante prevenirne una ulteriore diffusione.
Le soluzioni possibili, quando non è troppo tardi
Prevenire è meglio che curare, si dice. E il proverbio si rivela drammaticamente vero in questo caso. «Quando una specie aliena invasiva si è stabilita, è praticamente impossibile eliminarla. Ci sono alcuni casi di studio conosciuti, ma sono limitati a zone estremamente ristrette, come le isole o piccolissimi laghi». Negli ambienti circoscritti è doveroso fare un tentativo. In Italia al momento ci si sta provando con il pesce siluro, il più grande pesce predatore d’acqua dolce in Europa, nel contesto del progetto Life Predator: supportato dall’Unione Europea, dura cinque anni e coinvolge, oltre all’Italia, anche Portogallo e Repubblica Ceca.
«La specie è autoctona del Centro ed Est Europa ed è comparsa per la prima volta in Italia nell’Adda negli anni Cinquanta, probabilmente in seguito a un trasferimento di pesci involontario, e poi progressivamente si è diffusa in tutto il Nord Italia, nel Centro e adesso anche nel Sud», spiega Volta, coordinatore del progetto. «Il meccanismo principale di diffusione è stata la grande capacità del siluro di muoversi bene nel reticolo idrografico. Ma ci sono state anche immissioni da parte dell’uomo. Fino a trent’anni fa la legislazione in materia di specie aliene era poco incisiva. Ed era pratica comune andare a rifornirsi altrove in Europa di pesci da mettere nei laghetti per la pesca sportiva o di pesci esca per la pesca dei predatori».
Il siluro non è per nulla invasivo nel suo ambiente originario (anzi, in alcuni casi è in forte declino), ma lo è rapidamente diventato in Italia, con un impatto negativo sulla biodiversità lacustre e fluviale, anche grazie al clima più mite, all’assenza di predatori naturali e all’ampia disponibilità di nutrimento.
Specie aliene in cucina: il caso del pesce siluro
Il progetto Life Predator, avviato alla fine del 2022, si concentra su ventitré laghi italiani, tra cui Maggiore, di Avigliana e di Ivrea. Innanzitutto, si propone di mettere a punto una strategia di detezione precoce basata sul DNA ambientale. Significa che tramite analisi dedicate si verificherà l’esistenza di questa specie nei laghi in cui non è ancora stata segnalata. Ma potrebbe comunque essere presente. Nei piccoli laghi in cui la presenza è già nota, come i laghi di Avigliana e di Ivrea, si procederà invece con un tentativo di eradicazione totale. Come? Migliorando i sistemi di cattura, che devono essere molto selettivi. Fare la stessa cosa nei grandi laghi (come il lago Maggiore) è impossibile: qui, dunque, si proverà almeno a contenere l’abbondanza della specie incentivando la pesca sportiva e professionale selettiva e anche il consumo alimentare di questo pesce.
«L’idea iniziale era quella di valorizzare il siluro dal punto di vista alimentare su scala promozionale, magari coinvolgendo grandi chef. Non volevamo però correre il rischio di creare in questo modo una nuova richiesta di mercato di una specie aliena. Abbiamo quindi scelto un’altra via: il siluro pescato dai pescatori professionisti o durante le attività di contenimento verrà destinato a una Cooperativa sociale di Verbania, che si occupa di fornire pasti in una mensa sociale, e all’Istituto alberghiero Maggia di Stresa, che sperimenterà l’uso culinario di questa specie».