Filippo Turetta è un assassino. A 21 anni si è macchiato di uno dei crimini più odiosi: ha ucciso la ex fidanzata Giulia Cecchettin. Ora è in stato di fermo e la giustizia italiana deciderà presto l’entità della pena da comminargli. Nel frattempo, nella sezione commenti di qualunque social, chiunque si sente in diritto di dire la propria riguardo ai coinvolti in questo tremendo fatto di sangue. A partire dalla vittima, Giulia Cecchettin, fino ai suoi famigliari. La sorella per molti sarebbe satanista perché indossava una felpa nera durante un’intervista tv. Altri trovano “curioso” che le piacessero film horror come Scream, in cui la gente muore a coltellate. Esondiamo gli argini del grottesco. Lo facciamo tutti: cominciando dalle testate che indugiano sui dettagli più efferati dell’omicidio (dobbiamo davvero saperli?), sulla pubblicazione dell’audio in cui la giovane rivelava di essere preoccupata per colui che sarebbe diventato di lì a poco il suo carnefice: non sapeva più come fargli accettare la rottura, il ragazzo minacciava di farsi fuori. Oggi il commento più mite che si legge nei confronti di Filippo Turetta è “Non ha avuto nemmeno il coraggio di ammazzarsi”. E, alla luce di ciò, condanniamo le due frasi in croce che gli sono uscite, finora, di bocca. In cella, vorrebbe un libro. Ha richiesto di vedere i genitori. Che eresia. In buona sostanza, non gli perdoniamo l’omicidio ma soprattutto il fatto di non essersi suicidato. È questo il massimo della civiltà a cui possiamo aspirare?
Filippo Turetta è un assassino, ma levargli ogni diritto non risolverebbe nulla
Filippo Turetta è un assassino. La violenza con cui si scrive di lui, ma anche della famiglia Cecchettin, sui social è e resta inspiegabile, grottesca. E passa impunita, anzi, apprezzata come fosse una gara a chi la spara più atroce. Fiumane di persone si dicono indignate dal fatto che il giovane si sia permesso di chiedere di vedere i genitori o di poter avere un libro in cella. Eppure, è tra i suoi pieni diritti – non gliene rimarranno molti da qui ai prossimi tempi – farlo. E questo è un bene. È un bene perché nel nostro Paese non vige la legge del taglione né esiste la pena di morte. Se impicassimo domani Turetta in piazzale Loreto, magari pure in diretta nazionale, a reti unificate, dopodomani nessuno ucciderebbe più? La risposta è no. Basti vedere, per esempio, tutti gli Stati americani in cui si friggono gli assassini sulla sedia elettrica: anche lì, la gente continua a essere uccisa. In Italia, ed è una fortuna, il carcere non è pensato solo a scopo punitivo ma anche rieducativo. E che un 21enne omicida possa un giorno o l’altro trovare il modo di convivere con il peso delle proprie atroci responsabilità, magari pure di ricostruirsi fino a poter diventare membro attivo di una qualunque società civile, è prospettiva auspicabile. Per Turetta come per tutti gli altri. Vero che Giulia Cecchettin non avrà più tale possibilità, ossia quella di vivere, ma se uccidessimo Turetta, se gli negassimo ogni diritto fino alla fine dei suoi giorni, Giulia tornerebbe tra noi? No. La rabbia è più che comprensibile, ma la matrice violenta e aggressiva di moltissimi commenti è la stessa distorsione da cui poi nasce l’orrore.
Filippo Turetta e la nostra assuefazione alla morte
Assuefarsi, anche soltanto a parole, alla morte, finisce col renderla un fatto quotidiano, una cosa come un’altra da commentare come fosse una partita di calcio, la finale di un talent, l’outfit dell’influencer all’evento chic. Non lo è. E non riconoscere la differenza non è sintomo di una società sana. Le parole di Filippo Turetta non dovrebbero essere oggetto di shitstorm social. E ciò vale anche per quelle dei suoi famigliari e dei parenti di Cecchettin. Anzi, in una società che vuole dirsi civile, nessuno penserebbe di mettere un microfono davanti alla faccia di chi ha appena subito un lutto tanto grave e improvviso. La perdita della figlia per morte violenta o la perdita del figlio che le ha tolto la vita. Nessuno pensa di aver messo al mondo un assassino. Come in ogni fatto di sangue, qui sono morti in due. Per motivi e responsabilità diversi. Ma il risultato non cambia. Sparare a zero sulla morte non fa di noi persone migliori ed è surreale vivere in un mondo in cui “i buoni” chiedono a gran voce che venga tolto ogni diritto al reo, magari anche la vita. Le parole sono importanti, al punto che ne rendiamo ogni giorno problematiche le desinenze in modo che non possano essere offensive mai. Perché il rispetto prima di tutto. Allo stesso tempo, ci sentiamo in diritto di usarle nel peggiore e più aggressivo dei modi per sputare i nostri due cent sulla morte violenta di Giulia Cecchettin. Potrebbe essere arrivato il momento di tacere. E magari di farci anche un po’ schifo.