Femministe influencer, sono brave sono loro. Integerrime e agguerrite, si battono ogni giorno, post autocelebrativo dopo post autocelebrativo, per mondare la nostra sciagurata società dal peccato originale della mascolinità tossica. Che si cela, nemmeno troppo bene, ovunque. E allora le femministe influencer puntano il dito contro il patriarcato, attraverso storie personali e testimonianze di altre donne di cui si fanno generoso megafono, avendo a lor favore decine di migliaia di follower. C’è chi si definisce “Survivor” di professione perché una volta o due se l’è vista brutta per colpa di un uomo. Chi tiene un qualche male tra utero e vulva e parla solo di questo, indefessamente. Femministe influencer, è una professione oramai. Anche perché tante si rivedono in loro e, casomai, (ri)trovano coraggio per affrontare la vita.
Negli ultimi giorni, alcune femministe influencer hanno fatto fronte comune contro un’altra donna, Serena Mazzini, su Instagram Serena Doe. La accusano in fronte compatto d’essere una megera: avrebbe, infatti, dato i natali a un gruppo Telegram pregno di body shaming, bullismo, sessismo perfino. Fioccano nelle loro storie Instagram lunghissimi muri di testo in cui dettagliano le malefatte di questa cattivona, tra le altre cose, collaboratrice di Selvaggia Lucarelli. E Fedez gode pubblicamente. Anche perché tutte quante le accusatrici, sarà un caso, sono in qualche modo a lui legate (per agenzia, amicizie, collaborazioni varie ed eventuali). Il nuovo trend delle femministe influencer, dunque, è l’odio social. “Il chiacchiericcio è roba da donne”, ha di recente detto il Papa. In fin dei conti, si sbaglia?
Femministe influencer: la bolla sta scoppiando anche per loro?
Femministe influencer, un’istituzione necessaria alla nostra società malata di patriarcato o una masnada di furbette che ha compreso come evitare di lavorare tutta la vita? Forse, una via di mezzo. Quel che è certo è che dopo il pandoro-gate che ha flagellato la reputazione di Chiara Ferragni, sui social tirino venti sinistri. Specie, per chi ci lavora sopra/dentro/intorno. I content creator, per esempio, sono ora costretti per legge, ne è nata una ad hoc post caos insalata bionda, a specificare quando fanno una pubblicità, tramite la scritta #adv. Pare poco, non lo è. Oggi se non esplicitano che si tratta di una collaborazione commerciale, rischiano sanzioni pecuniarie pesanti assai. Prima, era il Far West. E in moltissimi ci hanno mangiato ad agio. Inoltre, i follower sono molto più critici rispetto ai contenuti delle loro, un tempo, adorate webstar. È come se, improvvisamente, fosse nato del sacro senso critico. E allora i seguaci sono molto più attenti a ciò che viene postato, hanno smesso di seguire passivamente. Un progresso, certo. Ma anche una brutta gatta da pelare per le influencer, forse pure per quelle femministe. Che oggi, infatti, cambiano trend: dalla perenne vittimizzazione di se stesse, passano all’attacco. A dimostrazione definitiva che il clima, online, sia nervosetto per tutti. La bolla sta scoppiando, signore, c’è da correre ai ripari. Sì, ma come?
Dibattendo di questa shitstorm, a chi stiamo reggendo il gioco (davvero)?
Nessuno sarebbe mai così meschino da dare torto a una donna che piange. O almeno, nessuno avrebbe il coraggio di farlo anche solo per non passare da meschino. E così molte influencer femministe hanno creato il proprio, inconfutabile, mito. Lamentano drammi personali legati a temi sociali importanti e attualissimi, vampirizzando quanto più possibile il ‘trend’ della sensibilizzazione. Nel caso del ‘call out’ contro Serena Doe, eccole tutte in coro ad accusarla di body shaming, bullismo, transfobia e sessismo. Tutte parole che quasi fa strano non veder precedute da un # (hashtag).
La collaboratrice di Selvaggia Lucarelli, queste le accuse, avrebbe aperto (non è vero) un gruppo Telegram da 70 iscritti in cui spernacchiava influencer e attiviste. Diffondendo perfino, si dice, loro foto intime. A denunciare il fattaccio, per riportato e senza lo straccio di una prova, è stata Valeria Fonte. Una femminista in grado di scrivere, su Vanity Fair, che “Tutti gli uomini pensano come un femminicida”. E non aggiungiamo altro. L’hanno poi seguita Carlotta Vagnoli, Jennifer Guerra, Alice Pomiato & many more, quasi impossibile tenerne il conto. All’esterno della loro piccola o grande bolla social, nomi che difficilmente potranno dire qualcosa a chi li legge, ufficio anagrafe escluso. Con questa nuova (e pericolosa) botta di vittimismo aggressivo, però, stanno salendo all’attenzione nazionale. Non c’è testata che non parli di queste qui, magari proprio in apertura. Anche grazie alla ‘presenza’ di Selvaggia Lucarelli nell’affaire. Scrivendone e aprendoci sopra un dibattito social(e), stiamo facendo il gioco di chi?