Home Primo Piano Fentanyl, una ricerca scopre come prende le menti (e le vite) degli americani

Fentanyl, una ricerca scopre come prende le menti (e le vite) degli americani

Il grande business del fentanyl overdose passa anche dall'Italia

Da una decina di anni il Fentanyl, un oppiaceo di origine sintetica utilizzato in medicina come analgesico e anestetizzante, è diventato la sostanza che più desta preoccupazione nel dibattito sulla salute pubblica e sul controllo alla droga a causa della rapidità con cui induce dipendenza e della sua vasta diffusione, in particolare negli Stati Uniti.

Fentanyl, cento volte più forte della morfina

Con una potenza cinquanta volte maggiore di quella dell’eroina e cento volte maggiore di quella della morfina il Fentanyl è entrato in scena nei primi anni 2010 dopo che la Purdue Pharma modificò la formula dell’OxyCotin, il suo analgesico a base di ossicodone, l’OxyCotin, rendendo le compresse più difficili da frantumare, e quindi da iniettare o inalare, nel tentativo di ridurne l’utilizzo al di fuori dell’ambito medico.

Un provvedimento, derivante dalla consapevolezza che dalla messa sul mercato dell’OxyCotin quindici anni prima il numero di persone che lo assumevano per puri scopi ricreativi fino a sviluppare una dipendenza era aumentato esponenzialmente, che unito a linee guida per la prescrizione di oppiacei sempre più stringenti e all’aumento dei prezzi rese l’OxyCotin difficile da reperire.

Dall’ossicodone al Fentanyl

Tuttavia, come la storia economica ci ha insegnato più volte, proibire o limitare la disponibilità di un prodotto sul mercato non porta automaticamente al crollo della domanda, e così tutti coloro che negli anni avevano sviluppato una dipendenza da ossicodone dovettero semplicemente cercare un sostituto dell’OxyCotin trovandolo nell’eroina e, sempre più spesso, nel Fentanyl.

Quest’ultimo si è rivelato talmente letale che oggi, negli Stati Uniti, si parla di una vera e propria epidemia. Basti pensare che secondo i dati riportati The Economist è responsabile del 70% delle morti per overdose da oppiacei, e si stima che ogni anno uccida più statunitensi di quanto abbiano fatto i conflitti dal 1945.

La guerra alla droga americana non sfonda

Nonostante i fondi federali dedicati al contrasto alle dipendenze siano più che raddoppiati a partire dal 2008, il numero di persone che hanno sviluppato una dipendenza dal Fentanyl non accenna a scendere e, anzi, ha avuto un’impennata durante la pandemia di Covid-19 la quale ha acuito la crisi sociale e il senso di isolamento.

Il fallimento delle politiche pubbliche per il contrasto alle dipendenza difficilmente si può ascrivere ad una sola causa. Il fatto che la maggior parte delle risorse siano destinate al controllo della vendita e al trattamento della dipendenza una volta che si è già sviluppata a discapito della prevenzione è sicuramente un primo punto di attenzione. Ma un recente studio ha messo in luce come anche i percorsi terapeutici potrebbero non essere molto efficienti perché basati su una conoscenza solo parziale e inesatta di come gli oppiacei agiscono sul cervello.

La ricerca di Ginevra

La ricerca, condotta dal neurobiologo Christian Lüscher dell’Università di Ginevra e dal suo team, partendo dalla letteratura esistente, ha proposto un nuovo modello che spiegherebbe più accuratamente come si sviluppa la dipendenza da Fentanyl e che consentirebbe di comprendere e gestire meglio i meccanismi che ne stanno alla base.

La capacità di una sostanza di indurre dipendenza dipende dalla possibilità della stessa di causare un rinforzo sul soggetto che la assume. Nel caso degli oppiacei sono compresenti sia un rinforzo di tipo positivo, cioè la spinta a consumare ripetutamente la sostanza per provare nuovamente le sensazioni piacevoli che sono succedute all’assunzione, che negativo, ovvero quando il soggetto assume la sostanza per evitare la sofferenza delle crisi di astinenza.

Fentanyl, non è (solo) questione di dopamina

Fino ad oggi la letteratura medica riteneva che i neuroni responsabili della dipendenza da oppiacei, e quindi anche dal Fentanyl, fossero quelli dell’area tegmentale ventrale (VTA) e che dunque il rinforzo positivo e negativo dipendessero esclusivamente da un aumento e poi dal crollo del tasso di dopamina prodotta da questi neuroni. Lüscher e il suo gruppo di ricerca hanno invece scoperto che la VTA sarebbe responsabile solo del rinforzo positivo.

Gli studiosi hanno condotto l’esperimento su un gruppo di topi i cui recettori degli oppioidi dei neuroni della VTA erano stati inibiti. Sottoposti alla somministrazione del Fentanyl gli animali, pur non mostrando nessun segno del rinforzo positivo, una volta svanito l’effetto della sostanza esibivano chiari comportamenti dovuti al rinforzo negativo.

Una via per una cura?

Dall’analisi dell’attività cerebrale durante le crisi di astinenza gli studiosi hanno notato che la zona più sollecitata era quella dell’amigdala centrale. La presenza di neuroni che esprimono recettori degli oppioidi in questa parte del cervello, che contribuisce all’elaborazione di pensieri e ricordi ed è legata ad emozioni come l’ansia e la paura, era finora sconosciuta e la ricerca guidata da Lüscher non sono ne ha provato l’esistenza ma li ha anche identificati come responsabili del rinforzo negativo. Una volta messi fuori uso i recettori oppioidi di questi neuroni i sintomi dell’astinenza sparivano, mentre rimaneva intatto il rinforzo positivo.

Lo scorporamento dei due tipi di rinforzo e la scoperta che essi dipendono da due diverse aree del cervello potrebbero risultare fondamentale per poter mettere a punto terapie più mirate ed efficaci che potrebbero sostituire quelle più classiche a base di metadone, una sostanza che pur bloccando gli effetti dell’astinenza non è esente dal rinforzo positivo e alla lunga tende a creare essa stessa dipendenza. Inoltre, come riporta una nota dell’Università di Ginevra, questi risultati potranno aprire anche nuove strade per la formulazione di nuovi analgesici e antidolorifici che non creino dipendenza.