Perché questo articolo ti potrebbe interessare? Un dibattito sullo sport e gli atleti trans. In quali discipline possono gareggiare e da quali sono invece esclusi? Ecco dov’è il discrimine.
Il dibattito attorno alla partecipazione di soggettività trans alle competizioni sportive si è riacceso dopo due eventi. La decisione della Federazione internazionale di scacchi di non far gareggiare le donne trans e il comunicato della Federazione internazionale di atletica leggera sul livello di testosterone delle sue atlete. Perché sembra così complesso l’accesso delle persone trans allo sport? Ne abbiamo parlato con la ricercatrice Elisa Virgili e con l’attivista Elisa Ruscio.
Persone trans nel mondo dello sport
Com’è regolamentato l’accesso delle persone trans allo sport? L’abbiamo chiesto a Elisa Virgili, ricercatrice indipendente che si occupa di Studi di Genere, Teorie Queer e filosofia politica e autrice di Olimpiadi. L’imposizione di un sesso.
Facciamo una panoramica del mondo dello sport. Chi fa i regolamenti? Quale organo si occupa di stabilire se e come le soggettività trans possono gareggiare?
La regolamentazione è molto varia e ultimamente viene messa in discussione spesso, quindi si susseguono vari cambiamenti. In generale sono fondamentali le linee guida del Comitato Internazionale Olimpico, che danno delle indicazioni alle federazioni dei singoli sport, le quali poi possono ratificare o meno. Fino al 2015 c’era una grossa pressione sulle soggettività trans e sull’obbligo di sottoporsi a terapie ormonali per rientrare in categorie di genere precise. Dal 2015 questa pressione è venuta meno, ma le federazioni dei singoli sport non si sono mosse in un’unica direzione né hanno semplificato l’accesso delle persone trans. Nel 2019 sono state formulate delle nuove linee guida in una direzione migliorativa, che non sono però ancora state attuate
Non si fermano però le critiche che emergono soprattutto dall’atletica e da alcuni sport di squadra. Si sottolinea l’eccessiva mediatizzazione dell’argomento, che tende a puntare il dito sul singolo caso senza analizzare il contesto. Inoltre gli ostacoli riguardano soprattutto le donne trans. Anche le linee guida del Comitato Olimpico, rirendendo i principi della carta olimpica, oscillano tra garantire una partecipazione equa per tutti e garantire che le gare siano eque, ovvero avvengano in condizioni che non favoriscono nessuno. Si instaura così il pensiero che essere una donna trans implichi dei vantaggi – legati ai parametri ormonali – che rendono inique le competizioni femminili.
Perché ci si accanisce così tanto sulle soggettività trans?
In effetti sono tanti i vantaggi che le persone possono avere nello sport. Possono essere fisici, come l’altezza in certi sport, o relativi al contesto, ad esempio le maggiori possibilità e infrastrutture di alcuni Paesi rispetto ad altri. Il minimo vantaggio che può avere una variazione ormonale è così preso di mira perché va a scuotere il binarismo di genere. Tocca un campo che non è solo quello della competizione sportiva ma quello di come intendiamo i generi e i loro rapporti.
Spesso c’è un accanimento particolare della componente femminile – composta da atlete o spettatrici – contro le atlete trans. Perché secondo lei?
Ci sono voluti secoli per far entrare le donne in alcune competizioni sportive. Vedere il binarismo di genere nelle competizioni messo in discussione dall’ingresso delle soggettività trans scatena questa reazione. Lo dimostra, ad esempio, anche il caso di Caster Semenya, atleta sudafricana intersex e due volte campionessa negli 800 metri piani. Sono state le avversarie della sua stessa batteria a denunciarla e a richiedere i test sui suoi livelli ormonali.
Come risposta a questi ostacoli, si diffondono le squadre composte unicamente da persone trans. È il caso della squadra che l’associazione ACET ha costituito per partecipare all’Open Milano Calcio. In che direzione si può andare per un accesso sempre più facile delle persone trans allo sport? Verso la fondazione di squadre specifiche o verso la riformulazione dei regolamenti internazionali?
Dipende da cosa vuoi dallo sport. Per quanto riguarda lo sport a livello olimpico e professionista la direzione è quella che stanno prendendo le linee guida del Comitato Olimpico. Si mira al rispetto dell’identità di genere in cui le persone si riconoscono. Inoltre bisogna lavorare su altri parametri di equità che non siano legati strettamente alla visione binaria del genere. Anche perché sempre più studi mostrano che la variazione ormonale minima dà un vantaggio davvero contenuto. Inoltre molte persone trans affrontano un percorso medico complesso che mette alla prova qualsiasi presunto vantaggio ormonale.
Penso però che lo sport non sia solo quello, ma che debba avere come obiettivo la salute psicofisica di tutte le persone. Di conseguenza è bene avere uno spazio, anche all’interno di competizioni locali, in cui sentirsi al sicuro e a proprio agio insieme a persone che vivono la stessa esperienza. Questo però non deve essere ghettizzante: non deve essere l’unica squadra in cui le persone trans possono competere, ma una delle possibilità.
Un grosso ragionamento sullo sport va fatto nelle scuole. Nelle ore di educazione fisica non c’è preparazione né cura verso questi aspetti. Le discussioni sono sempre sulle competizioni mondiali perché sono quelle in cui si investe di più, ma banalmente una giovane ragazza trans che frequenta la scuola dove gioca e dove si cambia? Se sei una giovane persona trans, uno spazio in cui sperimentare il tuo corpo insieme a persone che hanno un’esperienza simile è importante.
Una questione che accende i media
Nonostante l’evoluzione del rapporto tra persone trans e sport a vari livelli, la questione subisce una precisa esposizione mediatica. Ne abbiamo parlato con Elisa Ruscio, attivista per il benessere delle persone trans con un focus personale su sessualità e sport.
Quale criticità ci sono, secondo te, nel dibattito mediatico attorno alle persone (e soprattutto alle donne) trans nel mondo dello sport?
Nel dibattito mediatico pubblico purtroppo vige ancora l’idea che l’inclusione di persone trans (donne in particolare) negli sport professionisti, sia qualcosa di controverso. Come per altri argomenti, come l’accesso ai bagni pubblici, c’è sempre questa idea di fondo della persona trans che vuole invadere in maniera aggressiva gli spazi delle persone cis e di volerle in qualche modo “ingannare” per tranrne un presunto vantaggio personale. Nel caso degli sport, e in particolare nel caso delle donne trans che vogliono partecipare alle competizioni femminili, si porta sempre l’argomentazione del livello di testosterone nel sangue e del fatto che aver avuto un’esposizione a un certo tipo di ormoni durante la fase dello sviluppo, sicuramente darà un vantaggio in età adulta in termini di prestazioni fisiche.
Ma da un punto di vista scientifico questa tesi non è mai stata provata, anzi è stata smentita. Una donna trans dopo due anni dall’inizio di una terapia farmacologica non ha assolutamente nessun tipo di vantaggio in termini di prestazioni atletiche rispetto ad una donna cis. Questo è quello che la scienza ha dimostrato fino ad ora. Ma è evidente che il dibattito pubblico non è dominato da un discorso fondato su dati scientifici ma solo da pericolosi stereotipi e da un preciso intento politico volto a discriminare una categoria già marginalizzata di persone.
Quali possibilità possono esserci per una piena inclusione delle soggettività trans nello sport e nella società?
La formazione di spazi sicuri e di squadre unicamente composte da persone trans, sono una diretta conseguenza del problema dell’accessibilità allo sport che le recenti decisioni di molte federazioni sportive hanno reso impossibile. In questi ultimi anni sono state diverse le federazioni che hanno introdotto nei loro regolamenti delle norme che di fatto escludono completamente le donne trans dalle competizioni, abbiamo visto la federazione internazionale del nuoto, dell’atletica, del rugby, del ciclismo, recentemente anche gli scacchi, e tutte le federazioni che ancora non hanno preso posizione seguiranno sicuramente questo trend di esclusione. E si parla solo di donne trans, perchè stiamo assistendo a un fenomeno dove la transfobia si intreccia con la misoginia, in questi ambienti sportivi dominati dalla controparte maschile.
Di fronte a queste federazioni che impediscono fisicamente l’accesso allo sport a una determinata categoria di persone, è nata quindi l’esigenza di creare degli spazi gestiti dalla comunità e rivolti alla comunità per poter dare la possibilità di fare sport dove in altri ambienti è reso impossibile. Esempi come la squadra di calcio Acet Team di Milano, tra i primi in europa a creare uno spazio esclusivo per persone trans dove potessero vivere il diritto allo sport in un ambiente sicuro e inclusivo, nasce proprio dalla necessità di trovare uno spazio a persone che altrimenti non potrebbero praticare sport o coltivare la propria passione liberamente.