Perché questo articolo ti dovrebbe interessare? Mentre Fratelli d’Italia presenta una proposta di legge contro i forestierismi, il nostro Paese è al 32esimo posto al mondo per conoscenza della lingua inglese (stando al report annuale dell’EF EPI, English Proficiency Index). Un allarme verso le lingue straniere che si unisce a una loro scarsa conoscenza. Quali fenomeni innesca? Lo abbiamo chiesto a Vera Gheno, sociolinguista, autrice e podcaster.
Il primo firmatario della proposta di legge contro i forestierismi è Fabio Rampelli, deputato di Fratelli d’Italia e vicepresidente della Camera. Gli obiettivi: rendere obbligatoria la lingua italiana per le comunicazioni pubbliche e il ricorso a traduzione o interpretariato per ogni manifestazione ed evento. In aggiunta si ipotizza il divieto di usare sigle o denominazioni straniere per ruoli aziendali, a meno che non possano essere tradotti. Infine si tollererebbero i corsi in lingua straniera nella scuole e nelle università solo se motivati dalla presenza di studenti stranieri (termine non meglio specificato). Il tutto per salvaguardare – sulla carta – l’identità e la lingua nazionale. La violazione di questi obblighi comporterebbe sanzioni da 5mila a 100mila euro. True-news.it ha intervistato Vera Gheno, sociolinguista, autrice e podcaster, per un parere sulla proposta ancora a uno stadio iniziale.
In Italia quanto siamo protezionisti verso la lingua rispetto ad altri Paesi? E perché?
Penso che più o meno in ogni comunità dei parlanti esista un certo grado di senso di protezione nei confronti della propria lingua, che è uno dei principali collanti per la comunità stessa. Detto questo, l’italiano è, per ovvi motivi, molto esposto agli influssi di altre lingue, soprattutto per la posizione geografica che l’Italia occupa, in mezzo al Mediterraneo; per molte persone, tutto questo è naturale e comprensibile, per altre no, e il tutto viene vissuto come una corruzione della lingua, un pericolo per la sua stessa sopravvivenza. In realtà, l’italiano non è particolarmente in pericolo; certo, lo si può studiare meglio, si può approfondire la sua conoscenza, che vista la complessità del panorama cognitivo attuale, non può essere solo strumentale, tecnica. Insomma, più che difeso, l’italiano andrebbe coccolato.
C’è un legame tra la chiusura o la titubanza verso i forestierismi e la scarsa conoscenza dell’inglese?
Secondo il linguista Tullio De Mauro, meno si conoscono altre lingue e più tendiamo a usarle male da una parte e a dar loro un valore quasi mistico, magico, dall’altra, per non parlare del fatto che ciò che non conosciamo e non capiamo ci fa paura. Concordo con lui, e penso che la strada per evitare di usare male gli anglismi passi dal conoscere meglio l’inglese.
E quando invece l’uso di termini inglesi rientra in dinamiche di potere cosa accade? Penso alla lingua aziendale piena di mix linguistici spesso anche arbitrari
Ci sono dei contesti in cui il valore mistico-sussiegoso degli anglismi è ancora più evidente, come ad esempio nell’ambito aziendale. Si tratta di usi gergali il cui fine è quello di creare la sensazione di appartenere a un gruppo elitario. Quindi, le persone sono portate a conformarsi a quello stile che viene percepito come “fighetto”, se mi si passa il termine. Per quanto io non abbia remore nell’usare altre lingue quando mi servono, sono abbastanza infastidita da questi usi “di lusso” degli anglismi, quando sarebbe molto più facile chiamare le cose con il loro nome e usare l’italiano.