A New York azzerata la condanna a 23 anni nei confronti di Harvey Weinstein. Non ebbe un processo equo. Le accuse delle vittime cadono per colpa dell’ansia di “incastrare il mostro”
E quindi Harvey Weinstein era innocente? No, niente affatto. Ma la decisione della Corte d’Appello di New York di revocare la condanna a 23 anni inflittagli nel 2020 è la dimostrazione che il furore con cui è divampato il #metoo ha portato a deragliamenti che rischiano di danneggiare quella stessa sacrosanta battaglia per cui il movimento è nato.
Weinstein, un processo nato su basi fragili
Il problema del procedimento che è stato di fatto azzerato ieri è infatti, in sintesi, che è stato istruito con basi piuttosto fragili. Per puntellare le quali l’accusa ha dovuto forzare la mano con le testimonianze. Trovando sponda nel giudice James Burke. Sino a uscire dal seminato e costringere ora i giudici a riconoscere che l’ex produttore hollywoodiano non ha avuto un processo equo. Un verdetto comunque contrastato: i giudici erano sette, di cui quattro donne. E l’annullamento della decisione del 2020 è passato di misura, per quattro voti a tre. Almeno una giudice donna, dunque, si è schierata con l’imputato Weinstein.
Il processo nasce da due accuse: quella di una assistente di Weinstein costretta a fare sesso orale nel 2006 e quella di una aspirante attrice stuprata nel 2013. Le accusatrici avrebbero potuto essere di più, ma le prove a sostegno delle loro ricostruzioni erano state ritenute troppo fragili per poter resistere durante un processo. Rimasero in piedi solo le accuse di queste due vittime. Che però allo stesso tempo avevano dovuto riconoscere di avere avuto anche rapporti consensuali con Weinstein. E così la Procura, per rafforzare la propria strategia, tentò la carta di altre testimonianze volte a descrivere la propensione di Weinstein verso condotte sessuali predatorie.
La Procura (ed il giudice) forzano la mano con le testimonianze
Ma la sfilata di testimoni che raccontarono delle loro brutte esperienze con Weinstein non aveva nulla a che vedere con i due capi di accusa. Il giudice Burke, condizionato dal clima generato dal #metoo, diede il semaforo verde a queste testimonianze ritenendo opportuno fare luce su tali presunte precedenti condotte da parte di Weinstein. Una scelta che ha di fatto inficiato l’equità del processo e del giudizio nei confronti del produttore cinematografico. Lo ha sintetizzato la giudice Jenny Rivera: “Il tribunale di primo grado ha sbagliato ammettendo testimonianze relative a presunti precedenti comportamenti sessuali non oggetto di accusa”. Ed ancora: “E’ un abuso della discrezionalità del giudice permettere accuse non dimostrate su quello che non è altro che un cattivo comportamento, che distrugge l’immagine dell’imputato ma non fa luce sulla credibilità di tali accuse in relazione alle contestazioni penali”.
L’imperdonabile passo falso del #metoo
E dunque un (grave) errore procedurale stravolge la storia di un processo simbolo del #metoo. Rendendo ancora più difficile fare luce sulla effettiva rilevanza penale delle condotte di Weinstein. Che resta ad ogni modo in carcere dopo la sentenza del 2022: sedici anni per aver stuprato una donna in un hotel di Beverly Hills. Weinstein, dopo l’azzeramento del processo newyorchese, continua a professarsi innocente anche rispetto a quest’altra accusa e spera di riuscire a ottenere di ridiscuterne. Se anche questa sentenza naufragasse, dopo che anche un tribunale della Pennsylvania ha annullato la condanna a Bill Crosby, per il #metoo si tratterebbe di un nuovo imperdonabile passo falso.