@idf EXCLUSIVE FOOTAGE: Watch IDF Spokesperson RAdm. Daniel Hagari walk through one of Hamas’ subterranean terrorist tunnels—only to exit in Gaza’s Rantisi hospital on the other side. Inside these tunnels, Hamas terrorists hide, operate and hold Israeli hostages against their will // #israelunderattack #standwithisrael #hamasisis ♬ original sound – IDF
Quella fra Israele e Hamas, infatti, è una guerra che si combatte anche sui social. Filopalestinesi e filoisraeliani si sfidano a colpi di hashtag. Sin dal primo attentato del 7 ottobre, militari e militanti usano le piattaforme online per documentare e propagandare le rispettive cause. Così i social diventano non solo fonti di informazione che permettono al mondo intero di conoscere e aggiornarsi sulla situazione in luoghi facilmente dimenticati dall’attenzione mediatica, ma anche megafoni di disinformazione, soprattutto su un tema tanto polarizzante quale è il conflitto in Medio Oriente. La fame di notizie di guerra spalanca, infatti, pericolose porte alla propaganda e alle fake news. Sono centinaia i video di esplosioni e feriti che non riguardano il conflitto in corso.
La guerra su TikTok
La proliferazione di contenuti non verificati trova terreno fertile nel confusionario mondo dei social. Nel flusso incontrollato delle piattaforme online le notizie viaggiano velocemente, diffondendosi esponenzialmente e rendendo difficile individuarne la matrice e di conseguenza attestarne la veridicità. Ciò costituisce un problema sempre più urgente dal momento in cui i canali online sono diventati la principale fonte di notizie per milioni di giovani. La generazione Z sembra fuggire dai media tradizionali, giornali, tv e radio. Poco anche l’afflusso su Facebook ed X, frequentati dalle persone più adulte. I giovani d’oggi usano TikTok per informarsi, trovandosi però di fronte a un mondo frammentato e schizofrenico, in cui non è facile né immediato saper distinguere il vero dal falso.
Il social cinese non nasce come piattaforma di informazione, ma di intrattenimento. Si basa, infatti, su un algoritmo non neutrale che sceglie e mostra i video di maggiore coinvolgimento, rischiando così di influenzare sensibilmente le opinioni degli utenti. E, spesso, la disinformazione risulta più coinvolgente della realtà, per quanto cruda essa sia. E’ quello che è successo dall’inizio del conflitto israelo-palestinese: immagini dell’orrore della guerra sono arrivate direttamente e indistintamente agli occhi del pubblico dei social. Per fini propagandistici entrambe le fazioni sembrano strumentalizzare e spettacolarizzare, anche con contenuti inventati, il dolore di una tragedia tutta reale.
Guerra israelo-palestinese: i due fronti si schierano sui social
Il massiccio ricorso ai social nel conflitto in Medio Oriente rischia di generare, dunque, una cattiva informazione e di veicolare messaggi stereotipati. La narrazione propagandistica è alimentata dalla tendenza che vede i soldati israeliani postare video ironici sulla guerra. Lo stesso Israelian Defense Forces ha una forte presenza online: su Twitter è seguito da 1,3 milioni di persone, da quasi 800 mila su Instagram e da 70 mila su TikTok.
Anche la causa palestinese trova sulla app cinese un veicolo di diffusione di massa. L’account SaveSheikJarrah, ad esempio, ha ricevuto milioni di condivisioni dall’esplosione delle tensioni. Hamas, invece, ha hackerato i profili di ostaggi e vittime per condividere video terrificanti. Secondo Cyabra, società di analisi israeliana, circa 30 mila account falsi hanno diffuso disinformazione a favore di Hamas o raccolto dettagli sensibili sui loro obiettivi.
Ma da che parte sta TikTok?
Proprio il conflitto israelo-palestinese ha riacceso il dibattito sulla capacità di TikTok di influenzare l’opinione pubblica. Le due fazioni si sfidano a copli di hashtag: #standwithpalestine ha raggiunto più di 2,9 miliardi di visualizzazioni, a fronte delle sole 200 milioni di #standwithisrael. Molti, dunque, sostengono che la popolarità dei video a favore della Palestina su TikTok sia un potente strumento di propaganda contro Israele. Recentemente, un gruppo di creator ebrei ha pubblicato una lettera aperta (“Dear TikTok”) chiedendo all’azienda di rafforzare i propri sistemi di sicurezza e moderazione dei contenuti e sottolineando che i loro post hanno visto un coinvolgimento inferiore all’1%. Ma, in realtà, gli hashtag forniscono una visione limitata e imperfetta del discorso pubblico. Tanti utenti li usano per criticare o per attirare l’attenzione su contenuti non direttamente collegati al tema principale.
TikTok, analogamente a Facebook e YouTube, vieta la diffusione di video o commenti che promuovono Hamas, in linea con le proprie politiche contro gruppi estremisti. Nonostante le preoccupazioni di numerosi creator, sia a favore di Israele che a favore della Palestina, sul mancato coinvolgimento online auspicato, l’azienda sostiene di non influenzare le opinioni degli utenti sulla piattaforma in base agli interessi dei governi, compreso quello cinese.
Trovare la retta via nella nebulosa di notizie in un flusso senza tempo
Nel mare di contenuti decontestualizzati e senza filtri deontologici né etici, è sempre più difficile che la documentazione di eventi reali da parte di giornalisti ed esperti emerga in modo indubbiamente attendibile, soprattutto su TikTok. Anche per il conflitto israelo-palestinese molte notizie vere vengono erroneamente ritenute false, e viceversa. A incrementare lo scetticismo è anche la modalità di fruizione del social stesso. Il flusso schizofrenico e potenzialmente infinito di TikTok permette alla disinformazione di scorrere veloce e indistinta. “Scrollando” i video si perde la cognizione del tempo: sia di quanto se ne stia trascorrendo sul social – l’app infatti copre l’orologio posto sugli schermi degli smartphone -, sia di quando sia stato pubblicato il singolo contenuto. La collocazione temporale dei video emerge solo una volta entrati appositamente nel profilo di chi li ha caricati. Ne consegue un’arma a doppio taglio: i tiktok ritenuti temporalmente “vecchi” possono improvvisamente diventare virali, ma possono anche diventare fonte pericolosa di confusione e disinformazione.