Israele è al bivio, tra strategia politica e militare, nella guerra a Gaza, sempre più vischiosa per il governo di Benjamin Netanyahu mentre, al contempo, questi viene messo nel mirino dalla Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia ordina l’apertura del valico di Rafah. Che cosa succederà ora? Ne abbiamo parlato con un analista esperto di questioni strategico-militari, il direttore del think tank Aliseo, Francesco Dalmazio Casini.
Casini, che scenari si aprono per Israele dopo le decisioni delle corti e gli stalli sull’offensiva di terra a Rafah, osteggiata dagli Usa?
Dobbiamo distinguere un piano militare e un piano politico. La volontà della Corte Penale Internazionale e la decisione della Corte Internazionale di Giustizia pertengono al piano politico. Sul fronte militare, Israele intende entrare a Rafah e bonificarla dai membri di Hamas. È stata costretta dopo moltissime pressioni a moderare e perimetrare la sua azione, attenendo a iniziare l’attacco a Rafah, ma sul punto di vista complessivo Israele dà priorità alla scelta militare.
Soluzione militare che sta scontentando molti alleati…
Il dato politico è legato al fatto che oggi Israele è molto meno popolare rispetto al periodo successivo al 7 ottobre. La solidarietà verso Tel Aviv è cambiata. Sin dall’inizio delle ostilità Israele ha fatto capire che non è una sua priorità la questione dell’immagine internazionale. Molto probabilmente, per Rafah, dobbiamo aspettarci un’operazione su questa filigrana. Israele punterà a entrare a Rafah, eliminare o catturare i membri di Hamas che troverà, colpire i funzionari, disarticolare l’organizzazione. Ma Israele non ha la forza per occupare l’intera Striscia di Gaza. Tanto che dopo poche settimane, col ritiro da molte zone bonificate Hamas ha ripreso il controllo del territorio. Nel frattempo il 50% dei tunnel resta operativo e in mano ad Hamas, che nel momento in cui Israele si ritira o allenta la presa riprende il controllo.
Che scenari politici ci attendono?
Sul piano politico possiamo aspettarci un veto all’Onu degli Usa alla decisione della Corte Internazionale di Giustizia e un peggioramento dell’immagine internazionale di Israele, che non sa più gestire al meglio la sua comunicazione. Nel governo di Netanyahu ci sono figure come Smotrich o Ben Gvir che arrivano a dire a alta voce che i palestinesi vadano deportati e Biden sia un amico di Hamas.
Chi osserva da vicino la questione Israele-Gaza è l’Egitto. Che ruolo ha questo Paese strategico in una fase delicata come quella attuale?
L’Egitto ha un ruolo delicato. Era il Paese che meno di tutti voleva questa guerra e vive una contraddizione. Da un lato non vuole sapere nulla dei profughi palestinesi, dall’altro che Gaza resti lì dov’è, palestinese e non israeliana, come interposizione con lo Stato Ebraico. In questo momento Il Cairo cerca di mediare con varie interposizioni, senza riuscirsi. Il problema è che l’Egitto è colpito da una situazione interna complicata: Al Sisi non può permettersi per ragioni politiche e economiche il mantenimento di possibili flussi di profughi, ma il Paese è arabo e con un’opinione pubblica compatta a favore della Palestina. Ne risulta un’ambiguità in cui l’Egitto, retoricamente, pone linee rosse a Israele ma deve tutelare i suoi rapporti con Tel Aviv senza poter fare nulla.