Perché leggere questo articolo? In Israele la crisi Netanyahu-Gallant dice molto del rapporto tra politica e i militari ai giorni nostri. Che sorprendentemente vede spesso più moderati i secondi
Benjamin Netanyahu è ai ferri corti col Ministro della Difesa Yoav Gallant? In Israele il gabinetto di guerra è in pieno fermento e non sorprende vedere che il potere militare è tutto fuorché subordinato alle logiche di quello politico. E quest’ultimo appare ben più radicale nella sua volontà di portare fino in fondo la guerra a Gaza.
Gallant contro Netanyahu sulle strategie
Vuole la grammatica del buon stratega che una guerra, per essere vinta, debba essere affrontata con obiettivi chiari rispetto a quelli che sono i mezzi e i fini. Gallant è un soldato tutto d’un pezzo. 65 anni, una laurea in Economia, da giovane ha lavorato come boscaiolo in Alaska in un’esperienza di personale formazione prima di entrare nello Shayetet 13, uno dei corpi d’élite di incursori della Fanteria di Marina israeliana. Nel 2009, da comandante delle truppe israeliane nel sud del Paese, ha diretto “Piombo Fuso”, la prima grande operazione militare contro Hamas. Nemico che conosce e sa gestire. Tanto che dall’inizio della guerra scatenata il 7 ottobre dai jihadisti ha mediato tra la sete di vendetta del governo e la ricerca di obiettivi militari realistici.
Gallant non ha mai parlato della problematica richiesta di “pulizia etnica” avanzata da molti esponenti della destra israeliana, non ha mai spostato troppo l’attenzione dall’obiettivo di creare un cuscinetto di sicurezza e, nonostante la sua voce sia mancata spesso sui raid contro civili e infrastrutture non militari a Gaza, sta cercando di condurre la guerra da soldato. Di recente ha pure aperto a un futuro governo palestinese a Gaza, cassando le tentazioni di esponenti della destra religiosa come Itamar Ben-Gvir di annettere la Striscia nel dopoguerra.
L’asse tra militari e intelligence
Ebbene, Gallant è parso nelle scorse settimane sull’orlo del licenziamento e in rotta con Netanyahu. Il punto chiave è legato al fatto che Gallant, assieme ai direttori dell’intelligence israeliana, sta cercando di capire la genesi delle falle securitarie costate, il 7 ottobre scorso, oltre 1.200 morti al Paese. E di capire quanto c’entri la totale impreparazione strategica del governo guidato da Netanyahu e da ministri come Ben-Gvir, titolare della sicurezza nazionale, nel successo delle incursioni di Hamas. Il mese scorso l’emittente israeliana Channel 12 ha riferito che Netanyahu ha impedito al capo del Mossad David Barnea e al capo dello Shin Bet Ronen Bar di partecipare a un recente incontro con Gallant e il capo dell’esercito Herzi Halevi per discutere di operazioni militari.
Sembra che Netanyahu stesse impedendo a Gallant di incontrare Barnea senza la sua presenza, mentre cresceva l’apparente sfiducia del premier nei confronti del suo ministro della Difesa, sollevando dubbi sulle potenziali implicazioni sulla sicurezza. Tra le attuali divergenze interne sulle strategie post-guerra di Gaza e sulle proposte di risoluzione per le richieste di scambio di prigionieri di Hamas, lo spostamento negativo dell’opinione pubblica internazionale e regionale sull’assalto israeliano a Gaza, che dura da oltre cento giorni, ha generato tensioni.
Gallant e l’inchiesta sul 7 ottobre
“Allo stesso tempo, l’escalation della situazione sul fronte settentrionale con Hezbollah ha costretto l’esercito israeliano a istituire un comitato per indagare sulle carenze politiche, di sicurezza e militari che hanno portato all’operazione alluvione di Al-Aqsa del 7 ottobre”, nota The Cradle.
Questa decisione dell’esercito israeliano è stata avallata da Gallant e avversata dalla destra radicale: “Durante una recente riunione di gabinetto, ministri sionisti nazionalisti e di estrema destra hanno criticato la decisione del capo di stato maggiore dell’esercito Herzi Halevi di indagare sui fallimenti operativi e di intelligence che hanno portato all’operazione del 7 ottobre, sostenendo che la formazione di una commissione d’inchiesta durante la guerra in corso a Gaza danneggia l’esercito e il morale dei soldati”. Gallant intendeva nominare a capo della commissione Shaul Mofaz, titolare dell’applicazione del piano di ritiro da Gaza dei coloni e degli insediamenti israeliani nel 2005.
Il nodo del futuro di Israele e Gaza nel dopoguerra
Alcuni membri del governo si sono mobilitati per far naufragare la scelta dell’ex ministro della Difesa Shaul Mofaz a capo della commissione d’inchiesta, in gran parte a causa del suo ruolo nel piano unilaterale di disimpegno da Gaza di Israele nel 2005. Gallant, da militare, consolida i rapporti con attori come gli Stati Uniti e le cancellerie straniere più di quanto stiano facendo i vertici politici ultranazionalisti. Sa che il problema vero di Israele non sta solo nella vittoria di una guerra che si sta dimostrando viscosa e difficile e su cui si pone il sospetto che la volontà di Netanyahu sia di prolungarla per consolidarsi al potere, quanto nella decisione per il dopoguerra. Per il quale si pone la decisiva tematica della leadership di Tel Aviv nella regione e della ricerca di una soluzione realistica.
“Grillo parlante” di Netanyahu, Gallant è ritenuto più attento alla visione per la guerra del leader dell’opposizione, e membro osservatore del gabinetto di guerra, Benny Gantz, a sua volta un ex militare. Non è nuova la sua distanza dal premier. Netanyahu ha licenziato Gallant lo scorso anno, a marzo, dopo che il ministro della Difesa aveva espresso pubblicamente disapprovazione per la fretta del governo di approvare la controversa riforma giudiziaria che ha spaccato Israele. Il licenziamento scatenò un tumulto tra il pubblico e scatenò proteste di massa spontanee e disordini senza precedenti, e il primo ministro fece retromarcia, lasciando Gallant al suo posto.
Quando i generali sono meno radicali dei politici
Ieri sulla giustizia, oggi sulla guerra è Gallant a fare da “coscienza politica” al leader del governo. Non è solo in Israele che succede ciò. Negli ultimi anni emerge, con maggiore intensità, una propensione delle classi militari di molti Paesi a frenare gli ardori della politica su diverse questioni strategiche. Si pensi ad esempio all’attenzione posta dal generale Lloyd Austin all’escalation di Gaza su cui il segretario di Stato Usa ha posto il faro. O a quella dell’ex capo degli Stati Maggiori Congiunti Usa Mark Milley, che ha invitato a evitare un’escalation totale tra Russia e Ucraina pur mantenendo fermo il sostegno a Kiev.
In Russia, Sergej Surovikin, comandante del fronte sud in Ucraina, nell’autunno 2022 gestì la ritirata da Kherson di fronte all’avanzata ucraina per evitare perdite inutili contro la volontà bellicista di Vladimir Putin. E oggigiorno i nazionalisti ucraini che circondano Volodymyr Zelensky continuano a spingere per una difficilmente realizzabile vittoria militare totale mentre il capo di stato maggiore Valeriy Zaluzhny si è detto aperto a un’idea di soluzione negoziata del conflitto. Nel paradossale mondo d’oggi, succede che i politici siano più militaristi dei soldati stessi. E il caso israeliano non è, come visto, isolato. Ma porta questo trend alle estreme conseguenze.