L’attacco con cui, lo scorso 7 ottobre, Hamas ha dato il via alla nuova escalation nel conflitto israelo-palestinese, ha avuto, tra le conseguenze, quella di disvelare al mondo il forte legame tra il movimento militante islamico – uno dei due principali partiti politici dei territori palestinesi – e uno dei suoi più attivi finanziatori e protettori, il Qatar, dove peraltro (a Doha) fanno base il suo leader Ismail Haniyeh, e Khalil al Hayya, un altro dei capi dell’organizzazione.
Lo Stato del Golfo, paese a maggioranza sunnita, formalmente una monarchia costituzionale governata dalla dinastia Al-Thani, ha iniziato a sostenere finanziariamente e politicamente la causa palestinese da una dozzina di anni, da quando l’organizzazione, in crisi con Iran e Siria, e al tempo privata anche del sostegno egiziano dopo il rovesciamento del primo governo dei Fratelli Musulmani, si era trovata a dover cercare altri alleati e foraggiatori. Li trovò nella Turchia e soprattutto nel Qatar, come chiarì un’audizione del settembre 2014 presso la Camera bassa del Congresso Usa. In quella stessa audizione, si segnalò una visita del 2011 dell’emiro del Qatar a Gaza, con la promessa di un contributo di oltre 400 milioni di dollari per aiuti e lavori di ricostruzione della Striscia di Gaza (questa la copertura, ma di fatto il sostentamento è proprio ad Hamas). Per quanto sia difficile quantificare i finanziamenti giunti da allora, gli analisti stimano contributi per circa 1 miliardo di dollari.
Moral suasion, corruzione, sportwashing, media
Si tratta proprio di quello stesso Qatar che, negli ultimi quindici anni, ha investito miliardi di dollari per accreditarsi in Occidente, lavando la propria immagine attraverso ben pagate politiche di moral suasion, tanto a livello istituzionale quanto di finanziamento di opere e manifestazioni. Le cronache politico-giudiziarie europee, pochi mesi fa, avevano registrato l’ingresso dello scandalo Qatargate e le relative accuse di corruzione nei confronti di politici e funzionari per agevolare alcuni dossier strategici per il Qatar in discussione all’Europarlamento. Dal punto di vista dei media, il network di casa, Al Jazeera, si è imposto a livello di riconoscibilità giornalistica, diventando anch’esso un elemento di soft power internazionale. In realtà però il Qatar, attraverso la generosità del suo fondo sovrano, ha lavorato soprattutto per essere percepito quale Paese emergente dai valori in fondo non dissimili a quelli occidentali, e i roboanti investimenti nello sport hanno avuto, in questo senso, ampia eco.
Dall’acquisto del Paris Saint-Germain alla sponsorizzazione del Barcellona e della Roma, dalle partnership con diversi altri club europei all’operazione che ha portato nel Paese il Mondiale del 2022, passando per gli accordi con Dorna e Formula 1 per ospitare i gran premi del Motomondiale e del Circus, il Qatar si è speso in un’attività di sportwashing globale che ha prodotto un clamoroso successo a livello di nation branding. Peraltro, ha senso ricordare due episodi piuttosto significativi. Il primo è del marzo 2021, quando il Qatar offrì gratuitamente la vaccinazione anti-Covid ai lavoratori e ai piloti del Motomondiale, in un momento storico nel quale le campagne vaccinali per la pandemia non erano pronte in nessun altro Stato. Il secondo, più recente, ha come protagonista Lionel Messi il quale, poco prima di alzare al cielo la Coppa del Mondo, venne vestito con il bisht, veste prestigiosa e tradizionale, quasi a promuovere una compiuta assimilazione di culture.
Canaglie e no
Come si concilia tutto ciò con quanto sta avvenendo nel Vicino Oriente, alla luce dei rapporti tra Hamas e il Qatar? Davvero gli sforzi degli ultimi lustri vengono spazzati via dal disvelamento di connivenze che, in realtà, non erano neppure segrete? La situazione non è così semplice. Al di là del sovvenzionamento di cui sopra, formalmente il Qatar a intervalli regolari (l’ultima volta nel 2019) emana leggi per combattere il terrorismo e chi lo finanzia, e in questi giorni si sta proponendo, non senza una certa ambiguità, quale figura di mediazione in merito allo scambio di ostaggi tra le fazioni in guerra. Ma è chiaro che la violenza e la disumanità dell’attacco della scorsa settimana, soprattutto l’orrore nei confronti di civili inermi, colpiscono l’intera narrazione comunicata in anni di nation branding e raccontano di un Qatar che, pur non essendo mai finito nella categoria degli “stati canaglia”, ha finito per rendere possibile uno degli attacchi più cruenti della storia contemporanea del Vicino Oriente.