Perché leggere questo articolo? A Gaza nessun civile è di serie B. Né i palestinesi né gli ostaggi. Il Papa e Sanchez l’hanno capito. Altri leader e opinioni pubbliche meno.
Sono Papa Francesco e Pedro Sanchez i leader-modello, perlomeno tra l’Europa e il mondo occidentale, sul conflitto di Gaza. Il Santo Padre, capo della Chiesa cattolica e della Città del Vaticano, da un lato. Il premier socialista, ateo e progressista della Spagna dall’altra. Gli unici a proporre una linea chiara per la fine del conflitto: mettere la questione umanitaria al centro. Fermando l’inutile strage di civili e aprendo al rilascio degli ostaggi del 7 ottobre. Troppo spesso dimenticati nel computo.
Una guerra inclemente
Del resto, nella guerra a Gaza che imperversa da oltre cinque mesi un filone sembra essersi perso quasi completamente nella narrativa: quello degli oltre 200 ostaggi israeliani sequestrati il 7 ottobre scorso durante i brutali attacchi di Hamas. Di loro, salvo per quelli che hanno avuto la fortuna di essere liberati, si sa davvero poco: la loro liberazione è in discussione nelle trattative politiche in corso con la mediazione di Paesi come Egitto e Qatar. Ma è altresì vero che è oggigiorno perfino difficile affermare quanti degli ostaggi risultino ancora in vita, data l’ampiezza dei combattimenti, e se siano confermate dichiarazioni come quelle presentate da Israele all’Onu sugli stupri e le violenze contro i prigionieri, soprattutto le donne, sequestrati a ottobre.
Su Gaza l’opinione pubblica è al tifo da stadio
Esiste una grande difficoltà nell’opinione pubblica e politica occidentale. Quella, cioè, di ragionare su una soluzione del conflitto israelo-palestinese che possa mettere al centro i civili. Prendiamo il caso dell’Italia. Un fronte, afferente soprattutto alla destra e a quello etichettato dal politologo Paolo Mossetti come “centro radicalizzato”, sostiene senza sé e senza ma non solo la brutale campagna di Benjamin Netanyahu ma anche l’idea, fallace, della “punizione collettiva” per i fatti del 7 ottobre. Quasi che la vendetta sia una categoria politica. Questo campo confonde Hamas con la Palestina, attribuendo alla seconda le colpe del primo.
C’è poi un campo in cui primeggia la sinistra, specie movimentista e extraparlamentare, che della lotta a Israele e ai filo-israeliani ha fatto una bandiera. E non sembra voler perorare, politicamente, l’idea che anche il rilascio degli ostaggi sia da ritenere una precondizione per la fine della guerra. Oltre che ignorare il fatto che la presenza al governo di Benjamin Netanyahu non è una giustificazione tale per zittire con l’accusa di “sionismo” chiunque appaia sull’altra parte della barricata, esiste in questo campo un fastidio latente nel condannare le mosse di Hamas del 7 ottobre. Al contrario, questo campo confonde la Palestina con Hamas, quasi leggendo come forma di resistenza le azioni del gruppo che domina Gaza.
Un’agenda umanitaria per Gaza
Chiavi di lettura semplicistiche di fronte alla grandezza del dramma umano e storico in atto. In quest’ottica una posizione umanitaria degna di questo nome appare, ora più che mai, la sola via d’uscita. E la soluzione umanitaria deve partire da un duplice presupposto: Israele deve fermare il massacro di civili che ha causato oltre 30mila vittime, soprattutto donne e bambini, e Hamas liberare gli ostaggi. Chi scrive da analista specializzato in questioni militari e geopolitiche in questo caso non vede alternativa tra la via più realista per chiudere la crisi e il superamento delle logiche della vendetta e dell’odio.
Lo deve capire l’opinione pubblica internazionale e lo deve capire anche la leadership dei Paesi, specie quelli occidentali, che stanno, sostanzialmente “lasciando fare”. Non andando fino in fondo nelle critiche al rischio di pulizia etnica di Netanyahu, su cui la condanna o i rimbotti arrivano sempre ex post, dopo ogni gesto eclatante. Ma anche rifiutandosi di dare una legittimità reale allo Stato palestinese, quell’Autorità nazionale palestinese da tempo ombra di sé stessa, che potrebbe e dovrebbe essere il volto internazionale del suo popolo, al contrario di Hamas.
La lezione del Papa e di Sanchez
In questa partita, nell’alleanza dei falchi l’ultradestra israeliana e i radicali islamisti sono nemici sul terreno ma, di fatto, alleati nel tagliare i ponti al partito della mediazione. Un partito che si indebolisce a Gaza a ogni bomba e missile. E che a Tel Aviv perderebbe di peso se gli ostaggi fossero liberati. In quest’ottica, da mesi, sono Papa Francesco e Pedro Sanchez le voci che dal 7 ottobre gridano nel deserto chiedendo equità di trattamento per i civili. Quelli colpiti in Israele a ottobre così come quelli martellati a Gaza da allora in avanti.
La linea “stop al massacro e ostaggi liberi” è stata esplicitata dal Vaticano come base negoziale nella Messa di Natale in cui ha parlato Papa Francesco. E da allora è diventata la chiave della posizione pontificia sulla crisi mediorientale. Ultima di una serie di “scontri di civiltà” che in Medio Oriente mettono in crisi l’ordine geopolitico e anche la fragile comunità dei cristiani locali. Ma anche la Spagna di Sanchez promuove un grande sforzo diplomatico.
A novembre Sanchez ha invitato Netanyahu a rispettare il diritto internazionale. Ha dichiarato che il governo di sinistra spagnolo aprirà al riconoscimento ufficiale dell’Anp per dare peso diplomatico ai palestinesi esterni ad Hamas. Ma ha anche incontrato una delegazione di parenti dei sequestrati del 7 ottobre, criticissimi della torsione repressiva di Netanyahu. Una delegazione di parenti è stata ricevuta anche da Re Filippo VI di Spagna e anche dal Papa, che da inizio anno ha per due volte, l’8 gennaio e il 3 marzo, sottolineato in forma particolare la necessità di un negoziato sugli ostaggi come premessa alla trattativa.
Su Gaza servono politica e umanità
Posizioni umanitarie ma con grande profondità politica. Sanchez rinverdisce quella tradizione del socialismo mediterraneo che in Italia bene abbiamo conosciuto ai tempi di Bettino Craxi, che seppe essere amico di Israele senza per questo disconoscere la necessità di farsi portavoce della richiesta di libertà della Palestina in nome della convivenza e della sicurezza internazionale. Papa Francesco consolida la “geopolitica della misericordia” che lo porta a mettere, al centro, fragili e vulnerabili. A prescindere dalla loro bandiera.
Posizioni che nel momento del bisogno potrebbero diventare piattaforme di negoziazione. Perché il precetto che accomuni i civili di Gaza e quelli di Israele rapiti il 7 ottobre come prime vittime di questo massacro è controcorrente nel dibattito da tifo da stadio oggigiorno in voga. Ma chiedere pace e giustizia su un fronte non vuol dire negarla all’altro. La guerra è troppo seria per ridurla al tifo da stadio: prima la vita, sempre. Quella che si può salvare deve essere salvata. In memoria di chi l’ha persa in conflitti troppo spesso ridotti a giochi al massacro contro i civili.