Gli Stati Uniti hanno negoziato con la giunta militare del Niger il ritiro della missione militare di mille uomini presente nel Paese centroafricano. Il Pentagono parla della necessità di un ritiro “ordinato” da completare nei prossimi mesi. Mirando a dimenticare l’onta dell’Afghanistan, dove ad agosto 2021 l’uscita dal Paese riconquistato dai Talebani portò a lasciare sul terreno mezzi ed armamento.
Usa, Niger addio
La giunta golpista che ha preso il potere la scorsa estate era stata minacciata dalla numero tre del dipartimento di Stato, Victoria Nuland, circa la necessità di restaurare Mohammad Bazoum, presidente deposto. Per gli Usa è finita diversamente, anche se dopo l’annuncio unilaterale di Niamey della fine dell’accordo di cooperazione con Washington il Niger ha trovato un accordo per la fuoriuscita delle truppe. E mentre l’Italia resta sola a mostrar bandiera in Niger tra i Paesi occidentali, l’uscita degli Usa dal Niger apre al rischieramento delle forze armate su altre missioni.
Washington continua, ovviamente, ad avere una presenza militare globale. E qui bisogna distinguere su due fronti. Da un lato, la presenza di assetti militari in permanente schieramento nelle basi all’estero. Parliamo di oltre 210mila tra truppe di terra, avieri, marinai e personale di supporto divisi principalmente tra l’Asia-Pacifico (oltre 130mila) e Europa (65mila). Togliendo i 44mila militari alle Hawaii, considerate parte del quadrante Pacifico, i Paesi con la maggior presenza militare Usa sono Giappone (55mila truppe), Germania (35mila), Corea del Sud (23mila) e Italia (13mila).
La lotta al terrorismo dopo il ritiro dal Niger
Per quanto concerne le missioni operative, finita quella di lotta al terrorismo in Niger, formalmente gli Usa restano operativi sul terreno su quattro teatri. Spesso dimenticata, la campagna più duratura, per quanto in larga parte a bassa intensità, è quella inaugurata nel 2002 con i raid in Yemen. La campagna si è saldata all’operazione navale Prosperity Guardian tra fine 2023 e inizio 2024: con l’ampliamento dei raid da Al Qaeda e l’Isis ai ribelli sciiti Houthi la postura degli Usa si è fatta ben più interventista.
Nello stesso quadrante geopolitico dello Yemen, in Somalia, gli Usa sono operativi dal 2007 con droni, aerei e forze speciali. L’obiettivo è puntellare il governo di Mogadiscio, pressato da una lunga e strisciante insorgenza jihadista, guidata da Al-Shaabab, e contenere la pirateria. Operativo dal 2007, il coinvolgimento Usa contro i ribelli somali rende tale guerra la seconda più lunga tra quelle in corso che vedono Washington schierata.
Gli Usa in campo contro l’Isis
Parallelamente a questo, Washington è schierata anche nella coalizione multinazionale contro lo Stato Islamico, operativa dal 2014 sotto il quadro dell’operazione Combined Joint Task Force – Operation Inherent Resolve. Sostanzialmente, tale coalizione ha tra il 2014 e il 2021 contribuito a demolire l’Isis in Iraq. Resta operativa, formalmente, in Siria. Anche, se non soprattutto, per controbilanciare il governo del presidente Bashar al-Assad.
Queste sono le missioni militari propriamente dette in cui, come si suol dire, Washington è boots on the ground. Resta poi, ovviamente, l’enorme apparato di deterrenza di cui si è detto. Garanzia della superpotenza americana. Sempre capace di interdire le guerre contro il territorio Usa o di sostenere gli alleati sotto attacco (vedasi Ucraina). Meno, come insegnano Afghanistan e Niger, di vincerle sul terreno. A partire dal piano politico.