La Transnistria è tornata a far parlare di sé, di recente, col voto simbolico con cui il parlamento della Repubblica secessionista della Moldavia orientale ha chiesto, il 29 febbraio, l’annessione alla Federazione Russa. Una mossa simbolica, la prima dopo il voto analogo del 2006 che, a seguito di un referendum, portò Vladimir Putin a rifiutare il verdetto delle urne con cui a Tiraspol la Transnistria, o Repubblica di Pidnestrovie per usare il nome moldavo, si espresse per chiedere l’unione a Mosca.
La nuova Cortina di Ferro è in Moldavia?
“Le autorità della Transnistria, a fondamento della nuova iniziativa, invocano la forte crisi economica, secondo loro dovuta alla decisione del Governo moldavo di abolire l’esenzione dai dazi sulle importazioni prima concessa alle imprese della Transnistria”, ha scritto Fulvio Scaglione su InsideOver.
Sottolineando quella che è “la perdita di un privilegio, pesantissima però per una Repubblica riconosciuta solo da Abkhazia e Ossezia del Sud (i due territori russofoni scissionisti rispetto alla Georgia), un’enclave schiacciata tra Moldavia e Ucraina, con meno di mezzo milione di abitanti e nessuno sbocco al mare”. Il secessionismo transnistriano è qualcosa di sostanzialmente accettato de facto in Moldavia. Ed è solo il clima avvelenato delle relazioni tra Mosca e il governo di Chisnau di Maia Sandu dopo l’invasione russa dell’Ucraina che ha potenzialità per cambiare la realtà.
Quella che nota Scaglione è la prima rottura sostanziale del patto d’equilibrio su cui si basa la convivenza interna alla Moldavia. E mette sicuramente di fronte alla prospettiva che, anche in Moldavia, la grande politica arrivi fin laddove i popoli non vogliono spingersi. Chi scrive ricorda, due anni fa, un viaggio compiuto in Moldavia e Transnistria. In quella che evocativamente Mathias von Tucher, amministratore delegato del porto di Giurgiulesti vicino alla confluenza tra il fiume Prut e il Danubio su cui passavano le rotte del grano deviato dall’Ucraina, ha definito una terra “alla fine della pace”.
La Transnistria non vuole la guerra ma…
Visitare la Transnistria, in particolar modo quella sotto il controllo di Chisnau e non del governo secessionista, significa visitare una terra in perenne attesa. Una terra agricola, con eleganti vigne, cascine e campi che si spandono attorno al fiume Nistru dove ancora sono forti i ricordi della guerra del 1992 tra esercito moldavo e separatisti. I quali, questi ultimi, comprendevano la componente etnica russa, in maggioranza relativa nella provincia, e quella…ucraina! Tanto che i volontari russi e ucraini a sostegno della Transnistria si scontrarono con truppe moldave e forze armate rumene. La storia è complessa e metterla in marcia rischia di produrre problemi per gli apprendisti stregoni di oggi.
La Transinstria, percorsa, è un memento mori così come lo è la Moldavia. Ovunque, in Moldavia, si vedono cimiteri militari dei tre grandi momenti in cui il Paese ha versato lacrime prima e dopo la fine dell’epoca sovietica: la Grande guerra patriottica contro l’invasione nazista (e la persecuzione tedesca e romena contro gli ebrei) dal 1941 al 1945; la guerra in Afghanistan degli Anni Ottanta in cui i moldavi furono l’etnia sovietica più colpita; da ultimo, la guerra del 1992 che amputò di fatto la Moldavia. Nessuno vuole il conflitto.
I venti della storia però insegnano che non sempre volere è potere. In Transnistria c’è un fragile equilibrio di cui la Russia è – ironia della sorte – uno dei garanti incaricati dal diritto internazionale. C’è il deposito di Cobasna che raccoglie le munizioni dell’Est Europa comunista accumulate dopo la fine del Patto di Varsavia. Ci sono infrastrutture energetiche cruciali per alimentare la fragile economia moldava. Ma c’è soprattutto il peso della storia. Che è l’elemento imprevedibile.
Transnistria e Gagauzia, due fronti aperti
Vale per la Transnistria ma vale anche per l’altra regione “calda” che una spaccatura tra Mosca e Chisinau potrebbe accendere. Parliamo della Gagauzia, il retroterra di Giurgiulesti a Sud della Moldavia. Regione autonoma con capoluogo Comrat che è un vero enigma geopolitico. I cittadini della Gagauzia sono di etnia turca, parlano una lingua locale che usa l’alfabeto cirillico, sono ferventemente ortodossi e rimpiangono l’Unione Sovietica. Putin, nella giornata del 7 marzo, ha ricordato che la Russia non permetterà una restrizione della sua autonomia.
I forti legami della comunità gagauza con la Russia, solidificatisi durante i regni dell’imperatrice Caterina II e del generale Aleksandr Suvorov, rappresentano una sfida per le autorità moldave e per le forze politiche orientate verso l’Occidente.
Mentre i rapporti tra Comrat e Ankara sono positivi, quelli con Mosca sono eccezionali. Inoltre, i legami culturali e religiosi, principalmente legati all’ortodossia, prevalgono sulle affinità etnico-linguistiche. In situazioni critiche, i gagauzi tendono a schierarsi con Mosca. È stato l’impero zarista a favorire il loro insediamento in questa parte della Bessarabia, anche facilitando il ritorno di gagauzi che erano stati deportati dall’Impero Ottomano nei Balcani occidentali. La storia e la realtà attuale della Gagauzia sono strettamente legate alle politiche assertive della Russia. Il futuro di questa relazione è incerto.
Come cambia la Gagauzia
Nel piccolo borgo di Avdarma, situato a venticinque chilometri a est di Comrat, vive una popolazione di tremilacinquecento abitanti, tra cui solamente quarantadue moldavi di lingua rumena. Di fronte alla Chiesa di San Michele, un monumento commemora coloro che difesero l’edificio dall’iconoclastia sovietica e dalla distruzione. Al contrario, a Comrat, davanti al palazzo del governo regionale, si erge una grande statua di Vladimir Lenin che domina la strada principale della città, intitolata proprio al leader sovietico. Questo contrasto offre una metafora visiva della situazione della Gagauzia, dove il passato e il presente si intrecciano.
Mentre al di là del fiume Nistro la divisione è di natura politica, con una popolazione divisa tra russi, ucraini e moldavi, la Gagauzia è un’enclave tripartita, suddivisa in altrettante piccole regioni dove la maggioranza della popolazione è di un’etnia diversa rispetto a quella dominante nel resto del paese. I gagauzi chiamano la loro terra “la terra del sole” e, secondo le leggende, si definiscono “figli del lupo”, animale ricorrente nella mitologia turanica dei popoli turchi. Potrebbero finire per abbracciare l’Orso russo? Presto per dirlo. Ma mai dire mai, nella caldissima Europa orientale di questi tempi.
® delle immagini a InsideOver